È un po’ una di quelle citazioni che si sanno, ma che magari non si sa esattamente da dove salta fuori: quel “Le parole sono importanti!” che grida a bordo piscina Nanni Moretti, esasperato dalla giornalista. Non solo ha ragione, ma fa ridere che, a portare Michele Apicella – il personaggio interpretato da Moretti, appunto, in Palombella Rossa – a quella reazione, sia stata una persona che con le parole ci lavora. Perché è facile credere di saper padroneggiare una lingua solo perché è la propria lingua madre; dopotutto, impariamo a parlare nei primissimi anni di vita, è – insieme forse alla gestualità, e alle espressioni – il primo strumento di comunicazione che riusciamo a mettere in atto. Ma proprio perché è uno strumento questo non solo si aggiorna, evolve, si adatta, ma è composto da regole, tecniche, elementi che vanno studiati e che necessitano di un continuo approccio critico.
È a partire da questa riflessione sulla lingua e sui termini che usiamo per parlare dei videogiochi – e per dare loro valore – che nasce la newsletter di questo mese.
La parola magica è *rullo di tamburi*…. Longevità!
Lo sappiamo, vi esce dalle orecchie. Anche a noi. Ma proviamo a guardarla in modo un po’ differente.
I disegni – come al solito madò meno male che c’è lei altrimenti saremmo perdut*! – sono di quella meraviglia di persona che porta il nome di Camilla Fasola. Ricordatevi di seguirla! Detto ciò, buona lettura!
Un euro all’ora
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La narrativa che circonda il mondo dei videogiochi è spesso fuorviante e imprecisa. Anche ciò che può sembrare un’inezia si scopre avere un effetto valanga imprevedibile, ma tutto deve essere comunque inserito in un discorso sistemico e non di causalità diretta. La durata dei videogiochi, o meglio, il concetto di longevità che fa parte del vocabolario di settore da tanti anni ne è un esempio lampante.
Riflettere attorno a questo concetto ci permette di constatare in modo chiaro che il videogioco, nonostante stia facendo enormi passi da gigante nell’affermarsi come la decima arte agli occhi dell’opinione pubblica, in realtà non è ancora riuscito a emanciparsi dal suo lato commerciale e consumistico.
La logica per cui se spendo 80 euro in un titolo questo deve obbligatoriamente intrattenermi per tante ore, rientra all’interno del sistema di pensiero consumista. Non importa ciò che ci lascia, può anche non lasciarci niente ed essere un’opera scevra di significato, ma l’importante è che si esaurisca nel maggior tempo possibile.
In questa logica, volenti o nolenti, ci siamo cascat* tutt*, pubblico e critica di settore e, di conseguenza, anche le aziende che i videogiochi li creano. Io stesso ci sono ricascato, e anche recentemente, recensendo il DLC di OlliOlliWorld. In quel contesto avevo, infatti, inserito tra i punti negativi il fatto che il DLC fosse solo un’ora di contenuti aggiuntivi. Sul momento non me ne ero nemmeno reso conto e il ritorno del dibattito su questo tema mi ha portato nuovamente a riflettere. Soffrendo molto di overthinking mi sono già fatto il processo, decretandomi peraltro colpevole, con un avvocato della difesa che definire impreparato è fargli un complimento (che poi sono sempre io).
La durata nei videogiochi è importante? Si, ma non nella declinazione comunemente diffusa e non di certo come inteso dalla logica consumistica. Conoscere la durata di un videogioco è utile per diverse ragioni: le nostre giornate sono sature di cose da fare, di impegni lavorativi e sociali. Siamo persone costantemente impegnate o che pretendono di esserlo.
Conoscere, quindi, la durata di un’opera permette di organizzare il proprio tempo. Non importa se questo è un tempo medio di completamento: ovviamente ognun* ha il suo playstyle e la durata, come l’esperienza del gioco in sé, é soggettiva. Anche quella durata media, nella sua inesattezza, permette però di fare un calcolo a spanne e capire al meglio se ci sono le condizioni per iniziare un gioco e portarlo a termine. è anche utile sapere se il videogioco è potenzialmente infinito, come un Game as a Service (GaaS) o un Sandbox.
Questo dato deve acquisire più importanza per le software house, soprattutto perché al momento questa durata non viene scritta sulla copertina del gioco o sulla pagina dello store, ma viene rilasciata come comunicato stampa fine a se stesso oppure calcolata dagli utenti su piattaforme come How Long to Beat. Il celebre sito internet, infatti, aggrega dati concessi dagli utenti, compiendo lo stesso identico lavoro che viene svolto dalla software house nelle fasi di test preliminari. Quei dati, insomma, esistono già, ma non vengono comunicati o vengono usati per dare contenuti al reparto marketing.
Avere questa informazione aggiunge più consapevolezza alla scelta e all’acquisto, permette di essere più informati. Ciò che è importante sottolineare però è altresì la necessità di slegarsi dall’ottica del consumo e non mettere in relazione la durata di un gioco con il prezzo al quale viene venduto. Sono due informazioni che non hanno alcuna correlazione.
Seguendo questa logica perversa, le persone dovrebbero lamentarsi costantemente ogni volta che acquistano otto euro di biglietto per il cinema anche se il film dura solo un’ora e mezza. Oppure spendere i soldi per un Blu-Ray o, per i nostalgici, un DvD, pensando “eh ma dura solo un’ora e mezza” invece di “questo film mi è piaciuto/non mi è piaciuto/mixed feelings”.
È semplice notare come questo ragionamento non abbia giustificazione logica quando si parla di arte e, quindi, anche della decima delle arti. Tale narrazione ha contribuito ad effetti perversi disastrosi sia sul piano artistico che umano. La spuria correlazione tra il prezzo e questo stravagante concetto di longevità ha portato tantissime aziende a produrre videogiochi annacquati, in cui in una campagna di 80 ore ce ne sono almeno 30 di missioni riempitive, che stremano l* giocator* pur di giustificare la sua spesa. Oppure software house come Techland si vantano del fatto che il loro gioco dura 500 ore. Intanto quelle cose sono state prodotte e hanno richiesto lavoro, stress o del maledetto crunching per poterle completare entro la consegna. Inserito all’interno di un mercato che cerca in modo spasmodico la costante attenzione del proprio pubblico, parliamo di economia dell’attenzione (Attention Economy), allora ecco che le aziende cercano di mantenere l* giocator* il più possibile incollati al loro titolo piuttosto che ad un altro.
I soldi che spendiamo quando compriamo un gioco non sono un indicatore di quanto duri il contenuto proposto, bensì di quanto è costata la produzione. Se un titolo ha avuto una produzione costosissima, non è inusuale che il prezzo possa essere alto, ma l’importante rimane comunque cosa ti ha lasciato quell’opera, se è stata capace di farti pensare, di emozionarti. Ciò porta a riflettere anche sulla sostenibilità dell’industria AAA per costi, prezzi e qualità, piuttosto che produrre qualcosa di più circoscritto ma mirato. Fa tutto parte di un circolo vizioso che produce effetti perversi e parte di questi effetti è causata anche da come raccontiamo quest’arte.
Se vogliamo cominciare a parlare del videogioco in termini artistici, allora dobbiamo staccarci dalla narrativa consumistica. Questo è necessario anche se i videogiochi sono prodotti commercializzati e sono nati come tali, anche se le aziende devono trarre profitto, anche se il sistema economico ci spinge a ragionare in questi termini.
Il fatto che si sia sempre parlato di videogiochi con questo vocabolario sin dall’alba dei tempi non giustifica la permanenza di questi concetti in un momento storico di grandi cambiamenti come quello che stiamo vivendo.
Come una pagnotta
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Non vi mentirò, è la terza volta che cambio completamente questo articolo. La prima volta mi è venuto fuori un testo su Carlo Emilio Gadda (non chiedetemi il perché o il dove volessi andare a parare, non lo so), mentre la seconda volta è uscita un’invettiva contro la critica videoludica italiana e Jovanotti. Aveva un suo senso, ma magari me lo tengo per un’altra volta.
Il tema dovrebbe essere chiaro guardando la newsletter, no? La longevità. O meglio, la durata. O meglio ancora, perché diamine continuiamo a dire longevità per indicare la durata, visto che non sono propriamente sinonimi. Sono termini simili che trovano la loro distinzione nelle sottigliezze, nelle sfumature del linguaggio inteso proprio come strumento di comunicazione. La longevità è qualcosa che va oltre la vita dell’essere a cui ci si riferisce; sottolinea non il tempo della sua vita, ma quello che vive “oltre”. Una persona longeva è una persona che sta vivendo più di quanto dovrebbe, più di quanto ci si aspetterebbe; come se avesse un tempo dilatato, o un pezzetto di vita bonus. Usarlo per indicare quanto ci si mette a completare un gioco, quindi, è tecnicamente errato.
“Ma in che senso è un videogioco longevo? Che vuol dire?” [cit. Matilde]
Mentre io e Damiano facevamo brainstorming, abbiamo iniziato a parlare della solita polemica – che torna ciclicamente, come i brufoli sottopelle premestruali – riguardo la durata dei videogiochi. Alcune settimane fa si era ricominciato a parlarne, tirando fuori sempre le solite argomentazioni, vedendo squadre di scrittor* di testate videoludiche scontrarsi in violente battaglie di “e tu lo sei all’infinito +1! Tiè!”. Mentre ne parlavamo, Matilde ha esordito confusa. Lavorando con le parole e non frequentando particolarmente l’ambiente giornalistico videoludico, non riusciva a capire che diamine intendessimo.
Il mondo del gaming ha un suo gergo, anzi, più di uno in realtà. Basta guardare il lessico di chi gioca online o in competitivo. Per definizione, il gergo è una lingua speciale, perché viene usata da un gruppo specifico di persone, ed è composto da termini comprensibili esclusivamente da chi ne fa parte. Ma noi non stavamo usando un gergo, stavamo semplicemente usando impropriamente una parola e ce ne siamo realmente res* conto solo in quel momento.
Quando è successo che questo termine è diventato sinonimo di durata? Magari è per via di un’assonanza con un termine tecnico inglese? O può essere che invece abbiamo una concezione di tempo differente quando ci rapportiamo ai videogiochi, e quindi dire “durata” non basta?
Ho deciso quindi di consultare il mio oracolo di fiducia, che interpello sempre quando ho dubbi di questo tipo: Francesco Alteri.
“Sai che non lo so? Un po' sicuramente per una base di ignoranza generale di chi scriveva nel settore. Chi scriveva su rivista un tempo era uno scappato di casa che si era ritrovato per caso a fare quel lavoro. Un po' perché trattiamo la durata del videogioco come il suo ciclo vitale, nel senso che di solito se dura poco se ne parla anche poco, al di là di giochi lunghi come Elden Ring. […] Anche perché ci sta questo problema qui nei videogiochi rispetto agli altri media, e cioè che di solito non ha confini netti. Mentre del cinema e del teatro puoi stabilire una durata precisa perché non sei tu a influenzarla, nel videogioco non solo si basa tutto sul tuo playstyle, ma è anche rigiocabile. E questa cosa è andata aumentando a dismisura con i sandbox, dove non hai una vera e propria fine.”
Dannazione. Altro che Delfi.
Quindi avrebbe senso usare il termine longevità per i videogiochi, ma ovviamente avrebbe tutta una serie di sue sfumature di significato che lo differenzierebbero comunque da quella che è la durata.
Sarebbe però qualcosa di soggettivo, legato alla propria percezione. Oppure definito dal primo momento in cui il titolo appare online, fino all’ultimo articolo che riporta notizie/riflessioni/discussioni su di esso. In quest’ottica, anche altri media avrebbero quindi una loro longevità. Anzi, in quest’ottica il termine longevità andrebbe quasi a sovrapporsi con la definizione di classico, come opera “che non ha mai finito di dire quel che ha da dire” [cit. Calvino]. Un titolo potrebbe quindi essere longevo per me, ma insignificante per qualcun* altr*.
Quando però osserviamo il tempo all’interno del gioco stesso, la longevità è qualcosa di estremamente malleabile. Acquista un tempo ulteriore, uno “scarto” che non dovrebbe avere, o che possiamo scegliere noi se concedergli o meno. Rigiocabilità, aree liberamente esplorabili, continui aggiornamenti che ampliano le storie e le aree di gioco, o che permettono di approcciarcisi in modo nuovo. Hanno un tempo tutto loro alcuni giochi, una dimensione temporale che si impasta come una pagnotta di pane. Si stende, viene schiacciata, poi rivoltata su se stessa e unita nuovamente.
E via così.
Ecco, mi piacerebbe avviare qui un dibattito, o un brainstorming, o una discussione, o un qualunque cosa su questo argomento. Comunicare può sembrare semplice, soprattutto per la nostra lingua madre è facile pensare che la comunicazione verbale sia uno strumento che dominiamo a pieno. Invece no. La lingua è uno strumento, e più si vuole comunicare più va studiato, fatto proprio, analizzato, allenato.
Il solo sciogliere il termine longevità dalla sua impropria funzione di sinonimo di durata può aprire a tutta una fetta nascosta di significati e di sensi legati al gioco stesso, a noi come individui che vi partecipano e a chi il gioco lo ha creato. Possiamo provare a decostruire il discorso servendoci del linguaggio stesso, anche se poi so che torneremo comunque a lamentarci e a bisticciare sulle solite cose; un po’ come Jovanotti che ancora non ha capito quanto i suoi discorsi siano legati al punto di vista di un ricco privilegiato “noi lasciamo le spiagge pulite” MA CHE DAVVERO JOVA?! Eddai!
Naive Angel Mode ‘sta clitoride - Gameromancer
Boo at the Flag, non rimanere in silenzio
Aprite il browser, cercate Boo at the flag, anzi no, vi facciamo risparmiare tempo, eccovi il link. Collegate il microfono e abbattete – gridando “boo” – una bandiera confederata. Semplice, no? Mi è bastata una riga per descrivervi questo gioco.
Il fatto è che, una volta abbattuta la bandiera, non avrete fatto nulla di più se non inveire contro un emblema. Boo at the flag, con qualche pixel e letteralmente due frasi, riesce a mostrare quanto sia facile prendersela con un simbolo, con ciò che trasmette un’intera ideologia; ma che però questo non basta. Abbattendo quella bandiera non avrete aiutato a sradicare quello che è un problema sistemico, strutturale, e che ora che avete abbattuto con rabbia il simbolo dovete lavorare e agire affinché la società stessa cambi. Ma anche stare in silenzio, lasciare che quella bandiera ondeggi al vento ha un significato, perché il silenzio indica uno schieramento ben chiaro.
Sviluppator*: Molleindustria
Disponibile su: Browser
Prezzo: Gratuito
Durata: qualche “boo!”
“Bayonetta e i falsi miti sulla stregoneria” di Giulia Martino. In questo speciale pubblicato su Multiplayer, Giulia Martino parte dalla rappresentazione della caccia alle streghe in Bayonetta per raccontare i falsi miti sulla stregoneria nella storia europea.
“Stray ci piace solo perché il protagonista è un gatto?” di Luca Marinelli Brambilla. In questa analisi pubblicata su StayNerd, Luca Marinelli Brambilla si interroga su Stray, videogioco prodotto da Blue Twelve Studio. L’unica forza di Stray sta nel fatto che il protagonista è un simpatico felino? Sono riusciti l* sviluppator* a creare un’interessante interazione tra il gameplay e l’ambiente?
“Che fine ha fatto la vecchia Ubisoft?” di Daniele Dolce. In questo editoriale pubblicato sulla storica rivista The Games Machine, Daniele Dolce analizza la situazione attuale della compagnia francese, partendo dal suo passato sperimentale e innovatore fino agli ultimi scandali e ai progetti finiti in developer hell.
Che cos’è OlliOlliWorld? - Indie Comune
Siamo arrivati alla fine anche di questo episodio di Still Alive, con Damiano rifugiato al fresco nelle montagne piemontesi mentre Ilaria, purtroppo, cerca di combattere (male) contro il caldo milanese. Speriamo che questa puntata sia stata di vostro gradimento e che vi abbia portato spunti di riflessione.
Come al solito vi invitiamo a commentare o a scriverci privatamente per eventuali critiche, feedback o risposte al dibattito. Noi siamo sempre a disposizione, o almeno cerchiamo di esserlo tra uno spritz e l’altro, magari pensando ai vecchi tempi, a quel periodo della vita in cui non avevi preoccupazioni.
E quando vai a pagare poi che dici “posso pagare col POS?”, ma la fai come domanda retorica perché è obbligatorio per legge e quindi non si possono rifiutare e poi tutto ad un tratto “cavolo guarda, mi dispiace eh, ma oggi proprio non funziona è da stamattina che mi da problemi guarda una rottura di scatole perdonami eh, ma tu vai a prelevare che ti aspetto” e io “si ok vado a prelevare” però il bancomat più vicino sta a 300 metri e di fare la soffiata alla finanza c’hai anche il desiderio, ma poi pensi di essere amico delle guardie e allora guardi Ilaria appena arrivata alla cassa pregandola di pagare anche il tuo conto e lei guarda l* cassier* e chiede “posso pagare col POS?”.