Il giornalismo videoludico, in generale, è immaturo. Il giornalismo videoludico in Italia è, invece, infantile. Pensiamo al videogioco in modo egoistico, come un giocattolo da tenere per se stessi. Tutto ciò che esula da questo giocattolo è noia, un’intrusione che vuole rovinare il puerile divertimento. Tutte le tematiche sociali, di analisi argomentativa, storica e tecnica: chissenefrega. Quella è roba da adulti e gli adulti fanno schifo, gli adulti hanno responsabilità che non desideriamo.
Diciamo che i videogiochi sono arte, ma proprio quando cominciamo a trattarli come tali, non ci piacciono più, non ci divertono. Perché devo divertirmi, non devo pensare. Siamo una community con la sindrome da Peter Pan di Stelle e ancora non abbiamo capito che se non riusciamo ad interpretare in modo maturo il nostro medium preferito, qualcun altro lo interpreterà per noi e lo stigmatizzerà senza comprenderne la potenzialità.
Parliamo apertamente del videogioco come una forma d’arte, trattiamolo come tale e andiamo in profondità. E ricordate che la vostra testa è un gigantesco centro sociale, e che se stanotte ci gira, ci andiamo a dormire col cane.
I disegni sono come sempre della grandissima Camilla Fasola!
La PEGI e il Trigger Warning
Nei giorni passati c’è stata la LudoNarraCon, una convention virtuale organizzata dall’etichetta Fellow Traveller e che ha portato sul palco tantissim* sviluppator* indipendenti. Oltre all’enorme quantità di demo da giocare, ci sono stati anche momenti di discussione molto interessanti sul medium e sul suo futuro (peraltro trasmessi su Steam e non mi capacito della scelta). Nel susseguirsi di ospiti e argomenti, alcune tematiche hanno rapito il mio interesse e mi hanno tenuto incollato allo schermo del PC per tutta la loro durata. La prima giornata, infatti, c’è stata una discussione sul concetto di Trigger Warning e dei filtri nella fruizione dei videogiochi.
Tale concetto fa parte ormai da anni della comunicazione femminista e si può spiegare in parole povere come una volontà, da parte dell* autor* di un contenuto, di segnalare la presenza di eventuali argomenti (ad esempio suicidio, lutto, disturbi alimentari, ecc.) che possono danneggiare chi fruisce dal punto di vista psicologico, rievocando traumi o turbandolo. Sono degli accorgimenti molto utili e permettono alle persone di fare scelte più informate su quali contenuti consumare.
In ambiente ludico, tale concetto è in uso nel gioco di ruolo cartaceo: spesso prima di cominciare una sessione di gioco si parla con il gruppo per fare la cosiddetta “dichiarazione d’intenti” sul contenuto oppure, come in Stonewall 1969, ci sono parole che possono essere utilizzate per fermare il gioco, chiedere di alleviare la descrizione e tanto altro. Vengono inserite come meccaniche di sicurezza e, purtroppo, non molti GDR famosi ne fanno uso, risultando una consuetudine degli ambienti indie. Nel videogioco invece, il concetto esiste sia nel mainstream che nel lato indie, ma in una forma che oggi, personalmente, considero lievemente arcaica.
La famosa classificazione PEGI (Pan European Game Information), utilizzata per catalogare i videogiochi in età consigliate di utilizzo e con descrizione sommaria dei contenuti, dà una serie di informazioni importanti a chi vuole approcciarsi a un’opera, ma l’impressione è che diverse fasce di fruitor* non conoscano tale sistema. Nonostante sia indicato con icone grandi, numeri e colori convenzionali come il verde, il giallo e il rosso, mi è spesso capitato di incontrare persone completamente ignare del loro significato. Inoltre la comunicazione di questa classificazione si è successivamente intorbidita con il passaggio ai marketplace digitali, che ne hanno integrato le icone nell’interfaccia utente, ma in sezioni difficilmente visibili o con dimensioni molto piccole.
Tralasciando questo aspetto e soffermandoci unicamente sul concetto, la classificazione PEGI è una misura intelligente e utile nel formare una scelta d’acquisto. C’è un’icona per indicare la presenza di scene orrorifiche, di violenza, uso di droghe, gioco d’azzardo e discriminazione. Un sistema, per certi versi, all’avanguardia nell’ambito videoludico, ma che potrebbe evolversi ulteriormente e prendere più consapevolezza della salute psicologica di chi gioca.
Il Trigger Warning non viola il consenso del fruitore coinvolgendolo in un’opera, storia o rappresentazione che può danneggiarlo. È una forma maggiore di rispetto verso la volontà, diversità, background personale e psicologico di ognun*. Non limita la creatività rappresentativa perché “eh ormai non si può più dire niente signora mia”, al contrario permette una grande libertà di rappresentazione, a patto che si avverta chi, dall’altra parte, vorrebbe mettere mano al pad e lanciarsi nell’esperienza.
La classificazione PEGI è di per sé utile, ma non incorpora nel suo linguaggio una qualche tipologia di avvertenza dal punto di vista psicologico, lasciando al* sviluppator* la responsabilità di inserire tali indicazioni nelle schermate antecedenti al gioco. In diversi casi queste diciture si trovano, ma in molte produzioni no. Sarebbe interessante una riforma di questo sistema soprattutto se accompagnata da una campagna di divulgazione adeguata.
Fonte: LudoNarraCon
Dov’è il barone rosso?
Io sono nata con un utero. Ho una vulva – con tutte le sue parti esterne –, un canale vaginale, un utero, le tube di Falloppio e due ovaie.
Durante il periodo delle medie – quel magico periodo in cui non sei abbastanza cresciut* da poterti considerare un essere umano definito, ma ti atteggi come se avessi già una personalità complessa tramite meccanismi di coping estremamente goffi (o, almeno, per me è stato così) – del mio piccolo gruppo di amiche io ero l’unica a cui ancora non erano arrivate le mestruazioni. Era qualcosa di cui parlavamo spesso: mestruazioni, sesso, i nostri corpi, i corpi altrui a cui paragonavamo i nostri (che erano sempre più “sbagliati” dei loro), i nostri seni, la grandezza delle areole, etc… Stavamo cambiando, eravamo curiose, e la nostra conoscenza di questi argomenti si alimentava con libri, fratelli o sorelle maggiori da cui origliavamo discorsi, riviste (e chi se lo scorda il Cioè, madò) e, nel mio caso, fumetti, manga, anime e videogiochi.
Buona parte di quello che ho imparato durante il mio sviluppo su relazioni, identità, ruoli sociali, sesso, corpi, battaglie magiche e potere delle carte l’ho imparato da questi media durante quegli anni. Che macello.
Arrivare a 14 anni senza il mio primo mestruo – che, per chi non lo sapesse, viene chiamato Menarca – per me era da una parte fastidioso, perché mi dava un argomento in meno di cui parlare con le mie amiche (che, insomma, anche se gli volevo un bene dell’anima, io ero pur sempre quella con interessi tremendamente da “maschiaccio”. E magari su questo argomento ci ritorniamo in futuro), ma dall’altra non mi sembrava così problematico: dopotutto, nessun personaggio di cui seguivo le storie sembrava preoccuparsi del suo mestruo.
Zelda aveva un regno al collasso, e Ganondorf era decisamente una preoccupazione che poteva richiedere un po’ di priorità. Le Mew Mew probabilmente combattevano solo nei giorni in cui il mestruo non c’era, e lo stesso capitava sicuramente per le guerriere Sailor. Lady Oscar invece secondo me non me la raccontava giusta, ma non sapevo come venissero gestite le mestruazioni durante la Rivoluzione francese, quindi non indagavo oltre.
E poi, Berserk. Ecco. La prima volta in cui un personaggio si mostrava ai miei occhi visibilmente – e dichiaratamente – impossibilitata dal mestruo. Caska, in battaglia, dolorante, che tiene duro e sopporta, e Gatsu che la guarda e pensa a quanto sia difficile essere una donna e una guerriera al tempo stesso, perché le mestruazioni non si curano del fatto che ci sia una battaglia da combattere.
Ho perso il conto di quante volte ho guardato il volto di Caska in quelle pagine. Avevo 15 anni, e il Menarca era appena finalmente arrivato (per poi sparire di nuovo e tornare dopo due anni, ma vabbè, direi che mettermi a parlare anche dello stato di salute delle mie ovaie forse è troppo). Però ecco, dannazione, perché solo dopo anni e anni di assidua lettura, di giochi a PC o sulla Play “rubata” a mio fratello quando non c’era, perché ci è voluto così tanto per vedere citate le mestruazioni? Di sangue ce n’era sempre ovunque, ma mai un accenno alla necessità di un assorbente.
Anche ora, io non ci credo che Ellie o Abby non avessero almeno un assorbente o delle garze di cotone negli zaini. Non ci credo che Aloy non si sia mai sporcata di sangue o non abbia mai imprecato a denti stretti prima di affrontare dei nemici mentre i crampi la piegavano in due e le gambe perdevano forza. E Lady, di Devil May Cry? Vabbè che nell’ultimo capitolo l’hanno sfruttata da schifo, ma davvero, mai un fastidio? Mai nemmeno un “vorrei solo stare a letto con la borsa dell’acqua calda sulla pancia, in questo momento”? Nemmeno un po’ di gonfiore?
Volete poi davvero farmi credere che Ciri non ha mai chiesto a Geralt o a Vesemir perché del sangue le stava uscendo dal corpo senza che si fosse fatta male, panicando e temendo una qualche sorta di maledizione?! Dai su...
Eppure, io di piccoli riferimenti alle mestruazioni nei nuovi media ancora non ne vedo, o comunque ne vedo davvero molto pochi. Qualcosa di estremamente naturale che capita a metà della popolazione mondiale è ignorato – o censurato – dalle storie che viviamo, e che cercano paradossalmente di essere sempre più realistiche e immersive.
“Vabbè, ma devi ipotizzare che gli eventi si svolgano tra un mestruo e l’altro”, direte. Mannaggia a voi, io non faccio in tempo a mettere via la coppetta che subito devo ritirarla fuori per il mestruo successivo, e invoco santi e divinità pagane perché e che diamine sono già passate tre settimane?! Non è credibile, dai.
“Non si può rendere il mestruo nei videogiochi. Non puoi mica far vedere delle mutande sporche o un assorbente rosso”, apriti cielo sia mai! Che poi l* videogiocator* con il sangue si impressionano.
“È fatica di programmazione in più, e inutile se non finalizzato alla storia”. Ok, questa parzialmente potrei anche capirla, ma no. Mi volete dire che vedere un personaggio gestire una problematica fisica inevitabile – anche solo per una volta in tutto il gioco – non è caratterizzante? A me avrebbe fatto piacere vedere Ellie che esulta nel trovare degli assorbenti in una cassetta medica, o, ancora meglio, vedere Joel che li trova e pensa che lei ne sarà felice. Piccolezze della realtà che mi avrebbe fatto piacere notare e vedere di più in quei media in cui cercavo disperatamente di rivedermi e di trovare risposte al mondo.
Cambio un attimo argomento, ma nemmeno troppo.
È di qualche settimana fa la notizia che GOG ha introdotto per l* dipendenti con utero il congedo mestruale. Una cosa inaudita a pensarci, vero? Fantascientifica! Eppure, caspita, dannatamente splendida! L* dipendenti possono scegliere di prendere del tempo libero – magari staccando prima da lavoro – o un giorno intero, tutto sempre pagato. Come un normale giorno di malattia.
I commenti a questa iniziativa sono stati vari, tra i “Ottima notizia. Uomini e Robot saranno più competitivi [nel mondo del lavoro] delle donne”, i “Lo useranno come scusa per non lavorare!”, o i “Mi chiedo come questo possa essere considerato "inclusivo", quando è l'esatto contrario”.
Chissà, magari giocare con dei personaggi che soffrono per il mestruo – con boh, la salute che scende poco poco più rapidamente, o gli strumenti per recuperare vita che per un tot di tempo funzionano solo alla metà, o il personaggio che per un giorno può solo camminare e non correre – magari aumenterebbe un pochino la sensibilità verso chi ‘sta piaga la vive dai 3 ai 7 giorni ogni mese, per decenni.
Così, giusto per.
Fonte: Axios
Non-binary, simboli che si combinano.
Una strada. L’ambientazione di Non-binary è semplicemente una lunga e interminabile strada su cui appariamo, senza sapere da dove siamo partit* e senza conoscerne la meta. Frasi, commenti, reazioni, decisioni su ciò che siamo e che dobbiamo e dovremo essere vengono dette nello spazio intorno a noi, costruendo, dei muri via via sempre più fitti. Ogni parola, ogni commento è un mattone che piano piano va ad amalgamarsi con gli altri. Questi mattoni sono colorati: alcuni sono azzurri e altri rosa. Quelli azzurri costruiscono un muro, quelli rosa l’altro. Noi non possiamo fare altro che andare dritti, costretti su una via che non permette deviazioni.
Ma mentre i muri crescono, impedendoci di guardare oltre i limiti della strada, aumentano anche gli ostacoli lungo il percorso. Pallottole colorate, sempre azzurre o rosa, ci vengono incontro. Ogni colpo ci fa svanire sempre di più.
Un gioco fatto di simboli, che sfrutta tutta una serie di costrutti sociali per mostrare con estrema chiarezza un mondo che pare infinito ma che in realtà è chiuso su un unico binario, mentre Pallin* – il nostro personaggio, a cui a inizio gioco verrà assegnato un sesso in modo completamente casuale – vive e vorrebbe muoversi senza quegli ostacoli, senza quei proiettili che sembrano perfettamente progettati per annientarl* non solo fisicamente ma anche come individuo.
Quando qualcun* vuole spiegarti qualcosa, vuole farti capire un concetto, allora cercherà di essere chiar*, semplice, di accompagnarti nella comprensione. Ecco, questo è quello che fa Non-binary: il linguaggio si fa semplice, puro, pulito, per mostrare quanto possa essere sì doloroso, ma anche potente.
Sviluppator*: Owofgames
Disponibile su: PC tramite Itch.io
Prezzo: donazione libera
Durata: 1 ora
“The Stanley Parable: Ultra Deluxe – Recensione” di Francesco Alteri. Un’analisi del nuovo capitolo di The Stanley Parable di Crows Crows Crows, ma che non segue i classici stilemi delle recensioni. Francesco Alteri firma per The Games Machine una recensione fuori dagli schemi, esattamente come il gioco che affronta. Una lettura sulla meta narrazione di un’opera indie che ha conquistato il cuore della critica.
“Caos sale gioco: come vengono omologate le macchine arcade in Italia” di Massimiliano Di Marco. Le notizie di questa settimana riguardo le Sale LAN hanno scosso un po’ il mondo videoludico e le notizie circolate nei primi giorni avanzavano letture e analisi per nulla verificate. In questo report pubblicato su DDAY.it, Massimiliano Di Marco va in profondità sulla questione e fornisce informazioni molto importanti per comprendere la gravità del vuoto normativo che circonda il settore.
“L’empatia nei videogiochi: una connessione speciale” di Stefania Netti. In un editoriale pubblicato su Eurogamer.it, Stefania Netti affronta la tematica dell’empatia nel medium videoludico e del suo ruolo fondamentale nella crescita degli individui e nella loro formazione, riportando anche le parole di esperti psicologi.
“Citizen Sleeper: emancipazione sintetica nel capitalismo interplanetario” di Luca Parri. Un’analisi sul viaggio di emancipazione affrontato dal* giocator* in Citizen Sleeper, videogioco cyberpunk di Gareth Damian Martin (Jump Over The Edge). Luca Parri scrive per Stay Nerd un pezzo che valorizza il design e la narrazione di questo peculiare titolo indie, nonché dell’universo cyberpunk che esso plasma.
Nelle puntate precedenti…
Questa puntata di Still Alive non è stata semplice – e quando mai lo è? – perché non è mai facile notare ciò che siamo portat* a tralasciare, a dimenticare o a dare per inutile o scontato. Veniamo cresciut* secondo un determinato sistema culturale, e ognun* di noi sviluppa di conseguenza un modo di vedere e interpretare ciò che poi vede. È un esercizio interessante però fermarsi e provare a osservare ciò che non c’è. Il vuoto è pieno di cose.
Come sempre, vi ringraziamo di aver letto anche per questo mese la nostra piccola raccolta di deliri notturni. Come sempre, se volete condividere con noi i vostri di deliri, potete trovarci sul nostro fantasmagorico canale Telegram, scriverci direttamente qui sotto nei commenti della newsletter oppure contattarci sui nostri profili Instagram.
Detto ciò, ci vediamo il mese prossimNO!
Eheheh… ci vedremo prima! Eggià. Prima del prossimo numero arriverà un altro contenuto. Una sorpresa, che probabilmente diventerà abituale. Ma ve ne parleremo meglio nei prossimi giorni!