Bisogna imparare a stare soli. Bisogna tornare a staccare gli occhi dagli schermi per prendere coscienza di ciò che ci circonda. Dobbiamo disintossicarci da questi strumenti digitali che ci portano a non averne mai abbastanza, fino ad annullarci completamente come individui. Ecco, questi sono discorsi che un po’ mi fanno ribollire il sangue.
Discorsi che presuppongono un modo giusto di vivere, di considerare se stessi e gli altri, capaci di migliorare il mondo solo se conservato in una sorta di purezza (definita dall’uomo stesso); insomma, l’equivalente dell’etichetta “senza OGM” sugli alimenti del supermercato o del “proveniente da luoghi incontaminati” ripetuto nelle pubblicità dell’acqua in bottiglia.
Stare soli è difficile. Stare soli è doloroso, e a volte impossibile. Io ho il diritto di non stare sola, di connettermi al mondo che mi circonda. Ho il diritto di spizzicare questa socialità quando ne sento il bisogno, di subirla passivamente in silenzio – assimilando – o di diffonderla e di contribuire ad alimentarla. E ho anche il diritto di sentirmi poi delusa da ciò che sta fuori da essa. Videogiocare, leggere un libro, guardare un film, o altro, in solitudine non è stare soli. Almeno, non lo è per me, perché sono attività che mi portano a non ripiegare su di me i miei pensieri e le mie attenzioni. Ragiono su altro, affronto tematiche talvolta impegnative, li ricollego a esperienze vissute, ma finché la mia mente è portata a vivere l’opera io non sono sola. Sono collegata con qualcosa creato da altr*.
Il recente malfunzionamento di Facebook, WhatsApp e Instagram – con i conseguenti rallentamenti di Telegram e Twitter – ha dato vita a una miriade di riflessioni su quanto ormai siamo dipendenti dai social, e a commenti che deridono un po’ chi per questo distacco è stat* male ed elogiano chi, invece, non si è trovat* in difficoltà o addirittura non si è accort* di nulla.
Tralasciando discorsi come la dipendenza dai social – che è un disturbo serio, che va curato e gestito con le dovute terapie e gli esercizi adeguati – e il come questo evento abbia reso ancora più evidente come i nostri sistemi di comunicazione digitale siano in mano a pochissime multinazionali – tanto che basta un piccolo intoppo di una di esse per mandare in difficoltà non solo gli utenti ma anche le aziende concorrenti –, ciò che mi ha dato da pensare è stato il rendermi conto di quanto io abbia bisogno di questi collegamenti anche per sentirmi effettivamente “me”. Io non mi basto, e credo che non mi basterò mai. I libri che ho nello scaffale non sono sufficienti, i videogiochi che conosco sono troppo pochi, le mie riflessioni e i miei pensieri su tematiche politiche, sociali, identitarie, cinematografiche, teatrali, letterarie, femministe, intersezionali, civili, etc… non bastano. E so che non lo saranno mai. Ho bisogno degli altri. Ho bisogno del mondo intero. Ho bisogno di connettermi e scoprire cosa il mondo ha da comunicare, e sentirmi dire che devo stare sola, imparare a isolarmi e a stare per conto mio, mi dà la nausea.
(P.s.: una stellina d’oro a chiunque colga la citazione letteraria nascosta in tutte queste righe.)
Questo articolo è stato pubblicato a ottobre in Still Alive, ciò che resta