In questo editoriale dobbiamo fare due mea culpa. Il primo riguarda la Milan Games Week: vi abbiamo fatto una copertura dell’evento unicamente su Telegram e purtroppo non siamo riusciti a confezionare alcune newsletter a riguardo.
Il secondo riguarda l’utilizzo delle IA per le immagini. Nella newsletter di settembre, per la copertina, abbiamo utilizzato il famoso Midjourney. Nella poca conoscenza del mezzo, abbiamo visto solo il nostro lato della medaglia, ovvero immagini gradevoli e adatte per una newsletter. Ci siamo informati da persone che più di noi se ne intendono e presa coscienza dell’errore, ci teniamo a far sapere che abbiamo rimosso quell’immagine per sostituirla.
Chiediamo quindi scusa per questa superficialità e ci aggreghiamo anche noi alla richiesta da parte degli artist* di chiedere una regolamentazione in merito.
Inoltre il tema IA tocca anche il mondo dei videogiochi da più punti e in futuro vedremo se abbiamo la possibilità e le risorse per parlare dell’argomento. Ma parliamo del soggetto di questa puntata, ovvero il buon vecchio capitalismo. Come avete potuto intuire leggendo questa newsletter, noi e il caro vecchio capitale non siamo granché amiconi, proprio per questo abbiamo scelto di trattare l’argomento, per analizzare in che modo la pecunia c’entra coi videogiochi.
Avendo 15 euro nel portafoglio abbiamo la stessa capacità di acquisto sia per un DLC di un videogioco AAA a nostra scelta, oppure di mangiare un buon Camogli con cochina bella fresca e dolcetto alla Nutella della casa sovrapprezzato. Nonostante ciò, le illustrazioni di Still Alive sono sempre di Camilla Fasola, una persona meravigliosa che dovete assolutamente seguire se ancora non la seguite. La foto di copertina su Substack è di Marcel Strauss, disponibile su Unsplash.
Stay Nerd ci ha intervistato per parlare delle newsletter al servizio del giornalismo videoludico.
Pagare per giocare
6 minuti di lettura
Per giocare ai primissimi videogiochi non era necessario pagare. Certo erano necessarie altre condizioni, ovvero l’avere accesso a università di tipo ingegneristico che erano le uniche che ti davano la possibilità di usufruire dei computer. C’era una sorta di gatekeeping che si è man mano sbriciolato con l’arrivo dei computer domestici e anche della democratizzazione dei mezzi di produzione. Nonostante non ci fossero richieste in denaro per poter giocare a quei primi prototipi, c’era comunque una barriera legata al privilegio economico e sociale.
Con la nascita della game industry, e l’iniziale consolidamento della fantomatica Silicon Valley, tutto ciò ha cominciato ad avere un assetto decisamente più commerciale e, appunto, industriale. Qualcuno aveva visto in questi videogiochi delle macchine per fare grandi soldi e ci si domandava come farne il più possibile.
Qual era il metodo migliore per monetizzare quel tipo di prodotto? Ora noi siamo abituati al buy-to-play, al free-to-play con microtransazioni e alle formule in abbonamento (anche se recentemente se ne vedono sempre meno lato MMO e più verso multigame subscription). All’epoca, però, la scelta ricadde sulla formula cosiddetta pay-to-play. Perché?
Le creazioni più vicine ai videogiochi, in quel periodo storico, erano, sorprendentemente, i flipper e altri cosiddetti macchinari elettromeccanici. Chi li produceva, in alcuni casi, cominciò anche a produrre cabinati. In Italia, la Sidam, che nella sua storia ha pubblicato videogiochi di importazione ma anche sviluppato bootleg in tempo da record, era nata producendo calciobalilla e macchine per fototessere (quelle in cui veniamo tutt* con una lombrosiana faccia da criminale).
In un articolo pubblicato su The Games Machine di dicembre da Danilo Dellafrana, in onore dei 50 anni di Atari, scrive di come fu proprio Bushnell, considerato il padre della game industry, a portare i giochi elettronici nel regno delle attrazioni elettromeccaniche, sfruttando la preparazione ingegneristica del suo collega Ted Dabney. Questi funzionavano a gettone: pagavi e giocavi la partita. Se dopo il game over volevi continuare, beh dovevi pagare nuovamente. Ed è così che il modello pay-to-play è spopolato nella golden age dei videogiochi. È stata, in qualche modo, una transizione naturale perché i giochi elettromeccanici e le giostre funzionavano a suon di quarti di dollaro. Un modello di questo tipo ben si adattava alle necessità, anche produttive, dei videogiochi della prima ora, nonché alle abitudini de* fruitor*.
Mandiamo ora avanti la linea temporale di solo 50 anni, roba da poco.
Il videogioco non ci ha messo molto a diventare un prodotto commerciale, e ora videogiocare costa davvero molti soldi. Il budget per la loro produzione è aumentato esponenzialmente e il prezzo di vendita con esso. I ritmi produttivi che già nella golden age erano serrati per garantire sempre uscite nuove, oggi non sono cambiati e la cultura del crunch risulta ancora spaventosamente diffusa.
Inoltre le console costano tanto, addirittura PlayStation aumenta i prezzi piuttosto che assorbire i costi dell’inflazione, scaricando il tutto sui consumator*. Per quanto su PC questa cosa si possa sentire di meno, se si vuole assemblare un computer adatto a giocare le ultime uscite la spesa è decisamente esosa. Insomma, videogiocare è ancora un privilegio.
Agli inizi però girava questa filosofia open source, nell’idea anche di condivisione di cultura. Qualcosa che ora è rimasto solo grazie a piattaforme come Itch.io e per giochi molto indipendenti, praticamente underground (per prendere in prestito un termine dal glossario musicale). I free-to-play veramente free sono pochi, e la maggior parte comunque ti offrono chincaglierie da comprare per supportare, anche giustamente, il costoso lavoro di sviluppo e manutenzione. Altri invece utilizzano dark pattern di design per cercare di farti comprare roba che non vuoi, vero Fortnite? Oppure meccaniche di neanche troppo velato gioco d’azzardo come nel caso dei titoli gacha, nonché dell’anarco-capitalismo dei play-to-earn.
Al cambiare del modello di business, però, ai videogiochi è accaduto qualcosa e questo qualcosa non è soltanto dovuto all’avanzamento tecnologico e alla maturazione dei gusti del pubblico. Chiaro che si tratta sempre di un insieme di fattori e contesti. Per arrivare al sodo: come hanno influito i modelli di business sul design dei videogiochi? In che modo hanno cambiato le esperienze alla ricerca del modello più sostenibile ed equilibrato per rientrare delle spese (e capitalizzarci sopra coff coff)?
Sto leggendo il libro di Anna Anthropy, Rise of the Videogame Zinesters. Una lettura che mi sento di consigliare a tutt* per avere una spiegazione di come la democratizzazione dei mezzi di produzione ha permesso a comunità marginalizzate di riappropriarsi di una forma d’arte. Questo spettacolare libro mi ha dato uno spunto di riflessione molto interessante proprio alla domanda di cui sopra:
Arcade Games, because they earn money on each play, are designed to be as succinct as possible, and to teach new players how to play quickly. They are also often designed to be hard, because a player, once she loses, will either have to pay again to continue her game or relinquish the machine to a new player. […] Thus home games became longer and longer in an attempt to appear more valuable to potential players. They could have much longer learning curves and be much gentler to play.
Il modello che ora sembra stia per ritagliarsi uno spazio particolare è quello degli abbonamenti, il “Netflix del videogioco”. Ma funziona? Ci siamo spesso lamentati dell’approccio Netflix del quantity over quality, ma è davvero questa la nostra preoccupazione? Se guardiamo meglio, abbiamo già un approccio bulimico non solo nella produzione, ma anche nella fruizione. Tonnellate di videogiochi vengono prodotti ogni anno, è difficile stare al passo ed è giusto perdersi qualcosa senza farci ingabbiare dalla FOMO.
Uscendo fuori dal sistema publisher tradizionali, una scossa l’abbiamo già registrata con l’arrivo dei progetti kickstarter, con gli utenti che finanziano direttamente i progetti artistici che ritengono di valore. Pentiment, ultima produzione di Obsidian, ha trovato la sua casa, stando alle parole del director, proprio grazie alla policy di Xbox Game Pass, perché nessun publisher tradizionale avrebbe mai pubblicato quel gioco.
Magari usciranno giochi più contenuti e meno dispersivi, che riescono quindi a coinvolgere più persone in esperienze di design decisamente più peculiari proprio per emergere dalla massa di produzioni in catalogo. Ma qui siamo nelle congetture, visto che questo sistema per i videogiochi è particolarmente recente e che quindi abbiamo solo bisogno di aspettare e giocare ciò che arriva. Tra un po’, magari, riusciremo a tirare le somme.
E voi cosa ne pensate? Quali sono le vostre congetture in merito?
L’isola
4 minuti di lettura
Vorrei essere un pothos. Davvero, quanto deve essere bello?
Praticamente indistruttibile – gli puoi anche dare da bere il ristagno melmoso della tazzina dove ci stanno spazzolino e dentifricio e lui sta comunque una meraviglia –, ha bisogno di luce ma non troppa – quindi può vivere tranquillamente dentro casa, nascosto dalle persiane, senza nemmeno dover trovare una scusa per non uscire perché “eh, mi dispiace, ma a me la luce diretta fa male quindi CHEPECCATO sarà per la prossima volta auguri a te e a famiglia” – e da ogni sua foglia può nascere una piantona gigantesca con estrema facilità, basta metterla in un bicchiere d’acqua (o in un vasetto) e stare lì a osservare le nuove radici che si propagano.
Adoro i miei pothos, e sono convinta che ormai sia io l’oggetto d’arredo e loro i reali abitanti di questa stanza. Tempo poche settimane e uno di loro sarà abbastanza cresciuto da strozzarmi nel sonno. Ho già accettato il mio destino, e infatti non lo sposto da quella mensola. So che arriverai, mio caro Gerri.
Ho comprato Gerri appena trasferita a Milano, perché in camera ho una finestra enorme, che però dà su altri palazzi composti a mosaico da altre finestre e altrettanti appartamenti. Giusto per capirci, io ho un pezzo di carta attaccata con lo scotch al cerchietto della webcam del pc perché altrimenti mi sento fissata. Potete quindi capire bene come questa situazione abitativa mi provochi non poco disagio.
“Avrebbe per caso delle tende?”
“Ci sono già le tende.”
“Ma… non coprono le finestre. Si fermano ai lati.”
“Però sono tende.”
La mia padrona di casa è una donna molto concettuale.
Le finestre che orbitano la mia però sono impenetrabili. Chiazze verdi, rosse, gialle, bianche, alcune anche rosa, e poi marrone. Ogni appartamento è un’isola, e a delimitare le coste sono oceani di piante erse a protezione.
Quindi ho preso Gerri. Conquisterò la privacy un pothos alla volta.
È buffo però. Vivo in un contesto urbano, fuori dalla mia finestra ci sono piante, fiori, scoiattoli (Milano è piena di scoiattoli non me ne capaciterò mai è assurdo), aree che danno l’impressione di poter essere attraversate solo con il gesto di una mano, e invece no; ogni chiazza d’erba indica un’isola. Nessuno sa chi ci abita o, meglio, tutt* vogliono sapere chi abita le isole intorno, ma nessuno vuole averci diretto contatto. Non importa quante grida arrivino dall’altra sponda del mare di mattoni, non importa il canto stridulo e ripetitivo delle sirene, non importa il fuoco, non importa la miseria. Non importa. Importerà solo il giorno o la settimana dopo, quando arriveranno le notizie in bottiglia, striminzite, su carta ormai diventata polvere. Chissà, forse è solo liofilizzata, basta un po’ d’acqua. Ma va tutto bene, perché è tutto oltre la mia isola. Non importa se le piante sono di plastica, se i pappagalli hanno la targhetta Maison du Monde, non importa se è tutto fermo, se è tutto immobile, se è tutto finto. Nessuno può entrare nella mia isola, e tutte le altre isole sono sbagliate, fatte male, dopotutto quello non è un Gerri, è un Carlo, non mi piace, non mi fido.
Siamo individui atomizzati, spinti a vederci come singoli in continua competizione. Bisogna sapere tutto di tutt*, ma non interferire con niente, non interessarsi di nulla, fare di tutto per mostrarsi senza farsi conoscere. Si è migliori così, perché siamo tant* e ognuno è rimpiazzabile.
“Mi piace un sacco come scrive! Che ne dite che la invitiamo a fare qualcosa insieme a noi? Che ne so, una live, una puntata podcast.”
“Ah, non credo. Se scoprono che collabora anche con altr*, le fanno il culo, e rischia che la caccino.”
“Ma perché? Ha un contratto di esclusività?”
“No, ma non vogliono che vada da altre parti.”
So bene che molte testate videoludiche sono diventate delle isole, ma la sezione “Guantanamo” non me lo aspettavo.
Un’intervista a Jemima Tyssen Smith, scrittrice di OlliOlli World, su skate culture, anticapitalismo e riappropriazione dello spazio urbano. Potete leggere la versione italiana su Videogiochitalia.it.
Non sono ver* amic* se non ti consigliano indie
Citizen Sleeper, corpi in un capitalismo in rovina
4 minuti di lettura
Citizen Sleeper si apre con la fuga di un* sleeper dal campo di lavoro della Essen-Arp, una delle tante multinazionali che si contendono le ricchezze del cosmo nell’universo narrativo del gioco. Cos’è uno sleeper? È una creatura inquietante, un corpo interamente sintetico su cui è “installata” una versione emulata della coscienza di un essere umano. Già, perché nel mondo di Citizen Sleeper è legale e soprattutto normale che una multinazionale possa comprare il corpo di una persona per poi “trasferire” la sua coscienza in un corpo artificiale da utilizzare come forza lavoro a basso costo. Gareth Damian Martin, di fatto, mette in chiaro da subito che il tema portante della sua opera è la mercificazione del corpo in tutte le sue forme.
Citizen Sleeper racconta un capitalismo senza scrupoli, così vorace da essersi spinto fino ai confini dell’universo pur di divorare anche le stelle e rivendere gli scarti. Certo, è un capitalismo in rovina, ma c’è ed è presente. Anzi, è anche più pericoloso che mai, perché come ogni animale messo all’angolo si difende con le unghie e con i denti pur di non scomparire una volta per tutte. L’antidoto a tutto questo sono la comunità della Erlin’s Eye - la stazione spaziale alla deriva su cui approda l* sleeper - e le storie di chi la abita. Piccole e delicate storie di lotta e dignità di persone in cerca di una libertà forse utopica ma necessaria. La loro risposta all’oppressione non è la distruzione del sistema ma la fuga dalle sue maglie, quasi come se l’unica pace possibile fosse quella che si viene a creare nelle zone d’ombra del controllo. La salvezza sta nelle cose semplici, nel contrasto che si crea tra chi è pronto a tutto pur di guadagnare e speculare su qualsiasi cosa e chi invece sogna di trasformare un tranquillo bar popolare in uno spazio sicuro per i suoi avventori.
Immaginate l’incubo di svegliarvi ad anni luce da casa in un involucro meccanico di proprietà di un’azienda pronta a tutto pur di proteggere la sua proprietà. Non esiste capitalismo etico o sostenibile, e Gareth Damian Martin lo sa bene. Quella di Citizen Sleeper è una storia di fantascienza che racconta il nostro mondo inquadrandolo da più lontano. La Erlin’s Eye dopotutto è una metropoli in miniatura, un crocevia di persone alla ricerca della dignità strappatagli dal sistema. La storia dell* sleeper protagonista non è tanto un’esagerazione quanto una premonizione spaventosa che anticipa il momento in cui anche qui sulla Terra arriverà il momento in cui una multinazionale potrà comprare il corpo fisico dei propri dipendenti facendo leva sulla loro povertà. Anzi, a dirla tutta è già così, perché ogni mattina ci svegliamo con la convinzione di essere i soli aventi diritto sul nostro corpo, ma si tratta solamente di un’illusione. Nel mio corpo non posso introdurre determinate sostanze, non posso abortire e, in certi paesi è illegale persino tentare il suicidio. Per non parlare, infine, della persecuzione e della discriminazione per tutt* l* sex workers che decidono di monetizzare il proprio corpo.
“Diventare grandi” significa affittare il proprio corpo per otto ore al giorno in cambio di una paghetta mensile. Il nostro corpo è già in vendita o, in certi casi, è già stato comprato da qualcuno. Citizen Sleeper non racconta un futuro distopico e distante, Citizen Sleeper racconta la storia dell* dipendent* di Amazon a cui è negato il diritto di andare in bagno durante il proprio turno, dell* adolescent* mort* in fabbrica durante l’alternanza scuola/lavoro, delle reti antisuicidio degli sweatshop cinesi che negano all* propr* dipendent* anche la dignità di poter dire basta una volta per tutte e di tutt* e di tutt* l* lavorator* dell’industria del videogioco costretti a turni massacranti di dodici ore al giorno per massimizzare i profitti di qualcun altro. Forse è per questo che nonostante la sua splendida colonna sonora ambient e il suo mood distaccato e rilassato, Citizen Sleeper è un videogioco così spaventoso: fa paura perché parla di tutti noi, e lo fa con una sincerità terrificante. Allo stesso tempo, però, le storie della Erlin’s Eye sono piccole oasi di speranza. È per questo che ci torno di quando in quando per decomprimere: la loro fuga è anche la mia fuga, e per quanto virtuale mi sta bene così.
Sviluppator*: Gareth Damian Martin aka Jump Over the Age
Disponibile su: Nintendo Switch, Xbox One, Xbox Series X|S, Microsoft Windows, macOS
Prezzo: € 16,79
Durata: 10 ore circa
di Andrea Sorichetti, Final Round
Collegh* fanno cose
Alessandro Palladino nella sua newsletter parla della polemica su Genshin Impact ai The Game Awards, con una visione interessante sulla presenza dei gacha all’interno di simili manifestazioni.
Giulia Martino su Final Round fa un’analisi di God of War e di come sono stati riscritti i miti norreni e, sempre su Final Round, Andrea Sorichetti parla del videogioco Yakuza e delle ambientazioni, affrontando la tematica della gentrificazione
Stefania Sperandio su Spaziogames pubblica un pezzo di opinione sulle potenzialità del Game Pass, alla luce delle parole del director di Pentiment.
Infine, su Stay Nerd, Luca Marinelli Brambilla intervista lo studio di sviluppo di The Fabulous Fear Machine, con un dialogo sulla paura utilizzata nel discorso politico.
Ilaria Celli e Maura Saccà dialogano con Tiziana Pirola sulla sua tesi Gamer/girls, La cittadinanza condizionata delle donne nel campo videoludico, vincitrice del premio IVIPRO come migliore tesi sui videogiochi.
Addio, Addio…
Prima di chiudere questo numero della newsletter ci teniamo a dirvi una cosa: correte a tirare via quei babbi natale dalle finestre per carità! Su su, sappiamo che li avete messi! Vergogna! Poveri esserini in tessuto e cartapesta, copie scomposte di una decorazione e parodia di se stessi e di Aldo, Giovanni e Giacomo. Salvateli, non lasciate che ciondolino così, come salamelle stese nel cantinino.
Detto questo, siamo tentat* di chiedervi come state, ma già vi immaginiamo con le bustine di Tachifludec all’arancia sparse per la stanza e il termometro pronto a essere sfoderato e posto in posizione ascellare. Ma speriamo ci siano anche fette incalcolabili di pandoro o panettone (non vogliamo alimentare sciocche rivalità culinarie, anche se siamo entramb* team panettone e dannazione come fate a preferire quel coso che sa di burro e aria non lo so ma vabbè vi vogliamo bene lo stesso).
Noi ci stiamo ingegnando per portare alcune novità a Still Alive. Vogliamo farla crescere e renderla sempre di più uno spazio di discussione sicuro e stimolante. È il nostro buon proposito per il nuovo anno, speriamo di non deludervi.
Grazie infinite alla nostra Matilde Ulivi, che opera dietro le quinte sgridandoci e amandoci a tempi alterni (non è come sembra, vi giuriamo che è una relazione sana), e un grazie enorme ad Andrea Sorichetti, che alla domanda “Ti va di scrivere qualcosa per il prossimo numero? L’argomento è fuck capitalism” ha risposto “Cazzo, sì”. Seguitelo su Instagram e su Final Round.
Poi beh, grazie a tutt* voi, che anche a questo giro siete arrivat* fino alla fine della puntata! Buone feste!