Lo so, il titolo potrebbe essere considerato un po’ clickbait, perché in realtà durante questa Milan Games Week di videogiochi indie non è che ce ne fossero chissà quanti, e lo spazio e le opportunità a loro riservate lasciavano decisamente a desiderare. Ma, ehi, mi è venuto di getto e non credo avrò mai più un’idea così bella per un titolo, quindi concedetemelo. Ci metto il copyright.
Tra un furetto fucsia che corre perfettamente su binari a ritmo di musica, ma lascia decisamente spaesati e confusi ad alti livelli di frustrazione quando deve muoversi in un finto open world (Fech the Ferret, sviluppato da Aucritas), e un gioco co-op in cui ho portato un povero gatto viola sull’orlo del suicidio più volte di quante io sia disposta ad ammettere (River Tails, sviluppato da Kid Onion Studio), sia io che Damiano abbiamo incontrato molt* sviluppator* e game designer, pront* ed entusiast* di mostrarci la loro creazione.
C’era frenesia in quel minuscolo labirinto, dove ogni pc, ogni postazione e ogni console componeva una nicchia luminosa, con la propria aura e il proprio altare votivo. L’eccitazione nel far provare la propria creazione, nel vederla prendere vita e nell’osservare come in qualche modo appaia differente a seconda di chi la stava vivendo, è ardua da spiegare. Quei giochi erano imperfetti, un po’ “rotti”; anche quelli a un passo dal completamento e dalla pubblicazione. E quanto orgoglio c’era in tutta questa splendida imperfezione, quanta voglia di parlarne, di raccontarla.
Tra i titoli che ho giocato, uno, lo ammetto, mi ha tenuta incollata per più tempo, non solo al gioco, ma anche a parlare con chi lo ha creato: The Perfect Pencil, dello Studio Cima. Un metroidvania che non solo colpisce per uno stile grafico meravigliosamente curato e una concept art che strizza l’occhio all’illustrazione per l’infanzia, lasciando però il tutto in equilibrio tra un sogno e un incubo ben mimetizzato, ma in cui ogni singolo elemento partecipa alla funzione di raccontarti qualcosa.
Mi sono fermata a parlare con Stefano Rauzi, artista e creative director del gioco, e dalle sue parole è uscita un’espressione tanto semplice quanto complessa: “Volevo semplicemente parlare della mia ansia, dei miei disturbi mentali, e ho deciso di farlo con un videogioco”. Rauzi ha così tramutato - amplificando e facendo evolvere - le sue prime opere pittoriche in un videogioco, compiendo non solo un ulteriore autoanalisi del proprio stato, ma un completo salto di medium.
Non è la prima volta che questi temi vengono affrontati da un videogame, o che persone che ne soffrono scelgano il videogioco come forma d’arte con cui esprimere il loro malessere (basta ricordare quella meraviglia di Gris¸ o Celeste, o anche Omori, Into the woods, e mioddio tantissimi altri). Ogni volta si gioca con perle che sfiorano le dita. Così come ogni essere umano è un individuo a sé, anche la malattia si manifesta in modi differenti, e ognuno la vive e la percepisce a modo proprio. In una condizione in cui trovare le parole risulta tremendamente complesso, c’è chi decide di interpretare tutto con un mondo in creazione e movimento, e vedere lo sguardo di Rauzi così fiero, lucido di fronte alla traduzione di ciò che non riusciva a comunicare, mi è bastato.
Questo articolo è stato pubblicato a novembre su Still Alive, Milan Games Week Edition.