Avete comprato le uova di Pasqua, sì? E le colombe? E il casatiello?! E le pastiere napoletane?!
Regà, è aprile, a questo bisogna pensare. E non lo diciamo solo perché chi è incaricat* questo mese di scrivere la intro della newsletter ha i genitori che gestiscono un panificio e quindi è nel suo totale interesse fare pubblicità ai prodotti da forno e pasticceria, no no. (*comprate ciiiibo*, *non fatevi il pane in caaaaaaasa*, *non lo sapete usare il lievito madre che diamine state faceeeeeendo*)
Comunque! Questo mese Still Alive si struttura in modo leggermente diverso. Abbiamo avuto il piacere di parlare con persone che hanno lavorato e lavorano nel mondo dello sviluppo indipendente, e l’intero corpo della newsletter è dedicato a loro. Piccolo problema: ci piace tutto e non vogliamo tagliare nulla, quindi il materiale è troppo e mettere ogni singola riga in una mail creava problemi. Ecco perché di “Still Alive” ve ne sono arrivate due! Una con la normale newsletter e una contenente l’intervista che abbiamo fatto a Diletta e Ruan, il team Quantifun!
È tipo il 2x1 che trovate scritto sui cestoni dei cd musicali degli autogrill: sapete che ve ne pentirete, ma non potete lasciarvi sfuggire l’occasione.
I disegni sono come sempre della nostra splendidosissima Camilla Fasola!
La prima volta
Le prime volte sono sempre strane. C’è chi le vive in modo sereno, in un ambiente tranquillo. Talvolta, invece, sono traumatiche e distruttive. E no, non sto parlando di quella cosa che negli anni ’60 chiamavano “sesso”, ma mi riferisco allo sviluppo di un videogioco.
Non tutt* lo sanno ma il videogioco è nato dopo il sesso, molto dopo: almeno cinque anni da quello che so io.
Tornando seri: sviluppare un videogioco pare quasi un’impresa titanica. La prima volta è segnante, poiché cercare di creare narrativa interattiva è uno sforzo collettivo, che coinvolge diverse maestranze e richiede una grande coordinazione e sinergia. Come in ogni lavoro d’altronde, ma deve ancora sedimentarsi l’idea che fare videogiochi è un lavoro serio a tutti gli effetti. Questo non soltanto nell’opinione pubblica generalista, ma anche in chi i videogiochi già li sviluppa da tanto tempo.
Per carità, c’è chi ha sviluppato anche videogiochi in solitaria, ma sono casi rari e le conseguenze di uno sforzo di tale portata spesso sono indelebili. Lo sviluppo di Stardew Valley è un esempio lampante: Eric Barone aveva raccontato a PC Gamer di aver dedicato almeno 70 ore a settimana per sviluppare il suo gioco, questo dal 2012 sino al 2016. Praticamente crunch autoimposto e si potrà chiacchierare in un altro articolo di quanto la narrativa del crunch stia causando danni anche nell’autogestione del proprio lavoro, oltre alle culture aziendali.
La prima esperienza nello sviluppo videoludico è, quindi, molto importante. Sviluppare il gioco della propria vita è il sogno di tantissime persone, ma trovare un gruppo di persone con cui cominciare può risultare difficile e la possibilità di rimanere scottati in progetti dubbi è dietro l’angolo. Ci siamo messi in contatto con G., un* modellator* 3D che ci ha voluto raccontare di una sua bizzarra esperienza in un progetto di sviluppo indipendente. Un’esperienza che può sempre essere utile per chi volesse cominciare, facendo comunque un po’ di attenzione.
“Dopo alcune domande e un NDA molto discutibile, compilato a metà, senza informazioni essenziali e senza controfirma, mi fanno entrare per direttissima nel progetto e nel discord senza un vero criterio” ci racconta. Questo è già un primo indicatore importante: un NDA (non-disclosure agreement) è un documento di riservatezza da prendere molto seriamente.
Nella mia esperienza posso dire di averne firmati diversi e devono essere presenti una serie di dati legali, formule giuridiche e informazioni ben precise, che sono indispensabili ad entrambe le parti. Il consiglio è sempre quello di rivolgersi a chi ne sa di più, un* commercialista o un* legal*. Poi c’è chi esagera con la puntigliosità, ma la prudenza quando si parla di questi documenti non è mai troppa e ve lo dice una persona che in più di un’occasione ha letto i file ReadMe.txt (o Leggimi.txt che dir si voglia).
“Il progetto andava avanti da almeno due anni. Eravamo in venti a lavorare, ma tantissimi altri entravano e uscivano quotidianamente, molti erano lì per fare portfolio”.
G. ci ha raccontato inoltre che chi era a capo del progetto voleva portare alla luce il gioco della sua vita e che, proprio a causa di questo presupposto, “ogni tipo di interazione collettiva o singolare per ovviare problemi o creare qualcosa di diverso veniva vista come eresia, e il risultato erano risposte passivo-aggressive.”
Le vicende che ha voluto condividere con noi sono accadute più di un anno fa. Ha lavorato in quel progetto per un paio di mesi prima di abbandonare. Successivamente si è messo a lavorare, con altri esuli del suddetto progetto, ad un altro videogioco indie. Un’idea più contenuta che dopo sei mesi è diventata anche giocabile su itch.io.
Le prime esperienze sono sempre strane, c’è chi le vive in modo sereno e in un ambiente tranquillo. Talvolta, invece, sono traumatiche e distruttive. Cerchiamo, quindi, di evitare la seconda.
Non leggete qui, andate di là
Questo spazio lo sto riempiendo un po’ per gioco a questo giro. Insomma, il vero contenuto non è qui, ma nella seconda mail che vi è arrivata. Cosa c’è in quell’altra mail? Un’intervista. Un’intervista lunga, densa, ma dalla quale non ho voluto tagliare una sola riga. Ecco perché non ci sarebbe stata in questo angusto spazietto, ed ecco perché ora sono qui a buttare sul foglio di Word parole dettate quasi da un flusso di coscienza.
Quindi ecco, io qui inizio a sproloquiare. Siete avvertit*.
Dall’intervista con Diletta e Ruan sono rimasta particolarmente colpita da un particolare: l’attenzione verso l* destinatario, verso l* giocator*, che entra totalmente a far parte del processo d’autore. Allora, partiamo dal presupposto che ogni creazione è creazione d’autore. In letteratura, anzi, in filologia “d’autore” è un termine che indica una specifica tipologia di manoscritto o di princeps (vabbè, la princeps è praticamente la prima edizione a stampa di un’opera. Ma non vi sto a spiegare oltre perché altrimenti poi mi metto a parlare anche di originale in movimento ed è la buona volta che vi disiscrivete), ma è un termine che più che altro serve per dare un’immagine a ciò a cui si sta lavorando. Tutto qui. Ogni testo è un testo d’autor*, e ogni opera d’arte è d’autor*.
Però ogni tanto un dubbio salta fuori: quanto l* destinatar* ha influito sull’opera, sulle intenzioni dell’autor*? La domanda mi devasta.
Beh, dipende. Così, d’istinto, verrebbe da pensare che per forza chi crea qualcosa ha in mente qualcun* che poi prenderà in mano questo qualcosa e cercherà di comprenderlo. Anche perché se il qualcosa non è stato fatto o pensato per essere capito, allora questo qualcosa è inutile. Ma è davvero così?
Andatelo a dire agli ermetici, o ai neoavanguardisti. O a Carlo Emilio Gadda (ti voglio bene, Gadda. Non leggete nulla di lui se non volete uscirne confusi, ma felici). Ma poi, davvero tutta l’arte poetica, tutta la pittura, tutto il cinema, ogni videogioco, ogni espressione artistica è stata fatta – anche sotto sotto, nel profondo – per essere capita? Il senso della creazione è proprio quello di comunicare un messaggio? Non lo so. Ovvio che già il fatto che io scriva “ogni espressione”, “tutta l’arte”, etc… va a portare al no come risposta. Quindi ok, provo a riformulare. Davvero il destinatario conta così tanto?
Il mio docente di semiotica direbbe “sì, sono già 25 ore di lezione che lo ripeto”. Il destinatario serve perché è parte del processo della comunicazione. Se il parlante (o, in questo caso, l’autor*) esprime un concetto e il destinatario non possiede gli strumenti per la decodifica, allora la comunicazione fallisce. Ecco perché il veicolo al quale affidiamo la comunicazione del messaggio è così importante, perché se costruiamo un’espressione che il destinatario non può interpretare allora addio messaggio. (Anche se, a essere pignol*, la comunicazione può andare a buon fine anche se il destinatario non possiede tutti gli strumenti per capire l’espressione comunicativa ma vabbè, facciamola semplice che altrimenti si va troppo nel tecnico.)
Ma allora davvero il destinatario serve?! Davvero non si può fare a meno di pensare a lui quando creiamo qualcosa? Ancora questo “dipende” che aleggia.
Dipende perché dipende dall’autor*. Dipende se quest* ha voluto creare qualcosa pensando al fatto che questo qualcosa dovrà essere decodificato da un destinatario per coglierne il messaggio. Ma quindi, questo pensare al destinatario modifica come l’autor* decide di creare la sua opera? D’istinto direi di sì. Ma sicuramente tra qualche settimana mi tornerà in mente questo sproloquio e avrò elaborato cinque risposte differenti.
Quindi, ultima domanda priva di risposta, l’opera - e di conseguenza il suo messaggio - ha valore solo se pensata per essere capita da qualcun*?
Going Under, la schiavitù ora si chiama stage non retribuito
In un periodo come questo in cui il mondo del lavoro sta dando il peggio di sé, Going Under è l’opera che cerca di riportare un sorriso. La nostra protagonista si ritrova alla prima esperienza in azienda, cominciando come stagista non retribuita alla Fizzle Beverages. Lei ha effettuato un percorso di studi improntato sul marketing, ma ben presto si renderà conto che svolgerà qualunque mansione eccetto quelle per cui ha studiato. Going Under critica gli ambienti di lavoro contemporanei e le contraddizioni del capitalismo tech, in un’avventura bizzarra e comica nei lati oscuri delle start-up.
Jakie Fiasco, questo il nome della protagonista, sarà immediatamente assegnata alla pulizia dei dungeon sottostanti all’azienda: tra scheletri minatori di criptovalute, ambienti tossici delle dating app e goblin imbottiti di caffeina per aumentare la propria produttività. Un hack ‘n’ slash1 roguelite2 che, attraverso una coloratissima palette e un gameplay accattivante, coinvolge l* giocator* in un’opera di rara bellezza.
Sviluppatore: AggroCrab
Editore: Team17
Disponibile su: Nintendo Switch, PlayStation 4, PC, Xbox One.
Durata: 9 ore
“Elden Ring: storia dell’interregno, dalle origini al ritorno dei senza luce” di Giulia Martino. La vera complessità sta nel riuscire a spiegare chiaramente ciò che non vuole farsi capire. Ecco, Giulia Martino ci riesce perfettamente. In questo articolo la complessità del prodotto di FromSoftware si districa, prendendo la forma di un insieme di racconti isolati ma, al tempo stesso, fatalmente uniti.
“Neoclassici #3: Hollow Knight” di Stefano Calzati. “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire” diceva Calvino. Beh, Stefano Calzati in questo articolo elegge – a buona ragione – Hollow Knight a classico, anzi, a neoclassico. Perché c’è tanto da dire su questo gioco e, ogni volta, le parole si fanno più dense, i concetti aumentano, il mondo si disvela. Hollow Knight continua a parlare.
“Scientology, videogiochi e altre storie” di Glitch. Cosa succederebbe se fossimo in grado di tornare indietro nel passato per aggiustarlo? Come si configura questa meccanica nei videogiochi? In un video saggio, il team del progetto Glitch ci porta alla scoperta del videogioco The Forgotten City, partendo dalle strambe teorie di Ron Hubbard e analizzando il rapporto tra presente e passato nei videogiochi.
Nelle puntate precedenti…
Anche questa puntata della newsletter giunge al termine. Ci piaceva l’idea di dare voce alle persone che sviluppano e che vogliono lavorare (o che hanno lavorato) in questo settore. I videogiochi sono una cosa seria, sono un lavoro, una passione e un veicolo artistico.
Sono un’arte complessa, come le persone stesse che li creano. Avere uno sguardo al dietro le quinte è sempre molto utile per affrontare con realismo la sfida di produrre un videogioco.
È arrivato, quindi, il momento di salutarci. Grazie per supportarci, e sopportarci, in questo nostro progetto giornalistico. Torneremo il mese prossimo e, chissà, magari anche prima. Abbiamo tante cose per la testa e molte di queste erano già lì, come quando si affitta l’immobile già arredato: che poi sempre sti cucinini claustrofobici, ‘na volta che qualcuno ha voglia tipo di stare largo è la fine, sgomiti sui muri per ‘na pasta al pesto.
Un giorno presenteremo il conto, e solo in quel momento potrete urlare: facciamo alla romana!
Genere di videogiochi d’azione incentrati sul combattimento. Uno dei titoli più famosi del genere è sicuramente Diablo. Letteralmente può essere tradotto come “Spacca e Squarta”.
Sottogenere dei Roguelike, a sua volta sottogenere dei giochi di ruolo. Il Roguelike riprende una struttura, appunto, simile al videogioco Rogue (1980), mentre il suffisso “Lite” indica un gioco che prende quelle meccaniche e le edulcora. Tendenzialmente queste sottigliezze lasciano il tempo che trovano e la gente litiga su questi termini dagli anni ‘80. Insomma, potevano magnarse “du spaghi”.