Ogni tanto l’algoritmo di Instagram, e la conseguente bolla nella quale mi ha rinchiuso, ne fa una giusta. Ho iniziato a seguire il profilo di Diletta immediatamente; dopotutto, con un post intitolato Cosa ci insegna Pablo Picasso sul Game Design mi acchiappi facile.
Sul suo profilo, Diletta racconta e spiega con una semplicità disarmante concetti base del game design, dà consigli per l’organizzazione del lavoro di sviluppo, parla dell’importanza del testing e mostra, passo dopo passo, come procede lo sviluppo del suo gioco. Già, perché Diletta, insieme al suo partner in crime Ruan, sta sviluppando il proprio gioco.
Un post dopo l’altro, una storia dopo l’altra, tutto ha iniziato a dare corpo a un progetto che avevo voglia di seguire, e a due persone che volevo assolutamente intervistare.
Quindi, ecco qui! Ah, piccola nota: l’intervista è stata condotta interamente in inglese. Lo specifico solo perché a un certo punto c’è un piccolo “modo di dire”, un proverbio, e se non sapeste che stavamo parlando in inglese pensereste che siamo usciti di senno.
Detto ciò, via!
Ilaria: Allora, giusto per iniziare facendo fare a voi tutto il lavoro, volete presentarvi?
Diletta: Mi chiamo Diletta e sono originaria di Pescara. Sono sempre stata interessata e appassionata di arte e design, soprattutto della cultura visual giapponese, cosi dopo il diploma artistico mi sono trasferita in Giappone. Ho studiato la lingua, animazione, manga e game design, e alla fine mi sono specializzata nella progettazione di interfaccia grafica per i videogiochi. Ho lavorato per varie compagnie a Tokyo. Dopo nove lunghi anni sono poi tornata in Italia, ma non ero felice, perché volevo continuare la mia carriera nell’industria videoludica e invece stavo lavorando per una comune azienda digitale. Così ho deciso di trasferirmi in Inghilterra, dove ho iniziato a lavorare per una nuova compagnia di videogames, specializzata nel mobile. Poi però, ecco, ho realizzato che non era proprio un luogo piacevole in cui lavorare. Se volete vi racconterò altro di questa vicenda!
Damiano: Come ti senti più tranquilla.
Diletta: sì, nessun problema. Tanto, è una vicenda pubblica, quindi… L’azienda era la Lockwood, specializzata in giochi mobile. Ho lavorato per circa un anno – o giù di lì – ed ero la designer dell’interfaccia utente dei loro prodotti nel team UX. Poi, ecco, praticamente hanno… oddio, come si può dire?
Ruan: beh, diciamo che essenzialmente avevano messo in atto un programma di riduzione del personale – ah, giusto per specificare, lavoravo nella stessa azienda, ci siamo conosciuti lì – che però si è rivelata non una semplice riduzione, ma sostanzialmente la compagnia disse “non abbiamo più bisogno della user experience”.
Diletta: sì, per me fu scioccante e doloroso. È impossibile creare un prodotto digitale senza il design, e loro hanno deciso di eliminare il team intero di UX composto da 7 designers compreso il leader, lasciando il prodotto nelle mani di soli programmatori. Delusa da questa esperienza ho deciso di abbandonare il mondo corporate e di dedicarmi full-time alla creazione del mio videogioco, mostrando con trasparenza ai giocatori l’intero processo che sta dietro la creazione.
Ilaria: e tu, Ruan?
Ruan: io ho iniziato a lavorare nel game development quando avevo 16 anni. Praticamente, da adolescente ho iniziato a interessarmi del videogames modding – che è la pratica di modificare livelli di videogiochi rilasciati sul mercato –, iniziando con Crysis di Crytek, in particolare, fino a diventare community manager di Crytek. E grazie a questo ho avuto il mio primo lavoro, lavorando in remoto prima che diventasse di moda (risata). Il salario era qualcosa come 350/400€ al mese, ma ecco, è come ho iniziato nel mondo dell’industria videoludica. A 19 anni sono entrato con uno stage alla Crytek, dove mi sono specializzato principalmente in programmazione per i giochi online, per fare in modo che i giocatori fossero sempre uniti, connessi, avessero tutti una piacevole esperienza, etc…
Dopo un po’ mi sono trasferito alla sede della Crytek qui a Nottingham. Tre mesi prima che la Crytek andasse a corto di soldi, siamo stati comprati da un publisher. Abbiamo continuato a lavorare sul gioco che stavamo progettando, ma loro hanno comprato tutto: computer, scrivanie, i nostri contratti, l’edificio, tutto. Hanno comprato l’intero studio e hanno cambiato tantissime cose, così io ho iniziato a lavorare all’engine, ho lavorato molto per l’animazione e le cutscenes, ero anche parte del team che si occupava della progettazione della modalità online, e poi sono diventato un membro del team di user research. Facevamo ricerche sul gioco, playtest; invitavamo fisicamente i giocatori a provare i giochi, facevamo esperimenti. Era abbastanza figo.
Dopo questa esperienza mi sono spostato al mobile alla Lockwood – di cui ha già parlato Diletta – e credo di aver lavorato lì circa quattro anni. Poi ho praticamente perso la fiducia, per lo stesso motivo di Diletta. Detto gentilmente, era un disastro. Così quando Diletta mi ha parlato del suo progetto mi sono interessato.
Diletta: sì, è nato tutto molto casualmente, parlando durante le pause pranzo in ufficio, mangiando fish and chips e bevendo coca cola! Come quando inizi a parlare con un amico delle tue passioni, delle tue aspirazioni! L’idea di creare un videogioco era estremamente entusiasmante per noi. Cosi sono nati i primi brainstorming.
Ilaria: Come organizzate il lavoro?
Diletta: (risata) come cerchiamo di organizzare il lavoro, perché è ancora un work in progress! Allora, tutto parte dal design, meccaniche ed esperienze del giocatore, che sono le fondamentali. Inizialmente ho lavorato sulla narrazione, facendo attenzione al messaggio che volevo trasmettere. Abbiamo poi parlato io e Ruan su come poteva svilupparsi la storia e abbiamo discusso su quale tipologia di videogame fosse più adatta. Alla fine abbiamo optato per un platform.
Deciso questo, ho iniziato a progettare tutte le varie caratteristiche con il “bubble method”. Creo una “bolla” centrale che funge da base per la mia mappa di idee, e da lì inizio a sviluppare tutte le parole chiave, cercando così di interrogarmi su quanti più aspetti possibili.
Ruan: una cosa importante che permette di fare un processo come il “bubble method” è quello di mettere subito in chiaro ogni singolo aspetto, ogni dettaglio. Molte delle più importanti decisioni che si prendono sono per esempio il “cosa mettiamo in questo gioco?”, o il “cosa teniamo fuori?”. È importante quindi tenere il progetto in uno spettro gestibile.
Diletta: la ricerca e la pianificazione sono aspetti importantissimi. Tutto inizia da lì. Devi definire il target – anche se ovviamente quello evolve; diciamo che ovviamente rimane una sorta di ideale – le caratteristiche del tuo gioco, la piattaforma su cui si vuole lanciare il gioco, per esempio Steam, App Store, Google Stadia, Console etc… non sono cose che si possono fare durante lo sviluppo, durante la creazione già in corso. Sono tutte cose che vanno necessariamente studiate prima.
Ruan: sì, giusto per fare un esempio concreto: non so se vi è mai capitato, ma a volte quando giochi su PC hai l’impressione che i controlli non siano stati progettati per PC. Hai la sensazione che siano stati progettati per, ad esempio, un controller. Ecco, queste sono alcune delle cose che si cercano di risolvere ancora nelle fasi iniziali. Ovvio, non possiamo predire ogni singolo elemento, non possiamo fare tutto giusto, ma alla fine abbiamo un disegno grezzo di dove stiamo andando e di dove vogliamo andare.
Diletta: esatto. Abbiamo per esempio deciso fin da subito che pubblicheremo questo gioco per PC, ma con anche un supporto per il controller, e anche per differenti sistemi operativi, come Linux, Windows, macOS.
Ruan: ok, qui c’è una motivazione super personale perché Diletta ha un Mac.
Diletta: (risata) sì! E, ok, allora, sono davvero infastidita che nel 2022 ci sia ancora tutta questa discriminazione per chi ha un Mac e vuole giocare!
Damiano: (risata) ti capisco! Nel 2012, circa, avevo solo un piccolo Mac e il ventaglio di giochi era ridicolmente piccolo! Quindi sì, ti capisco.
Diletta: sì, siamo molto agnostici riguardo il sistema operativo. Questa è un po’ la nostra policy: trasparenza e accessibilità per i giocatori.
Ilaria: Il vostro gioco è nato dal desiderio di raccontare un episodio o di comunicare qualcosa, oppure prima avete avuto l’idea del gioco e, per dargli una trama o un significato, avete “adattato” ad esso un messaggio?
Diletta: l’idea del gioco è nata da me, prima che ci mettessimo a lavorare insieme, nella mia testa, perché volevo raccontare qualcosa. Ero nel bel mezzo di una crescita personale, di uno sviluppo e presa di coscienza della mia identità, e volevo esprimere questo messaggio tramite un videogioco. La storia riguarda le emozioni, gli esseri umani e le relazioni. Penso che i videogiochi siano uno strumento estremamente potente per trasmettere un messaggio; sì, sono divertenti, ma possono anche educare e ispirare.
Ilaria: sì, assolutamente. Sia io che Damiano siamo grandi fan del vedere nei videogiochi un possibile mezzo per l’espressione di sé e per veicolare messaggi, e non solo per il puro divertimento. Certo, non che ci sia qualcosa di sbagliato nei giochi che puntano esclusivamente sul divertimento, assolutamente, ma vedere questa caratteristica come la sola e unica di cui si può fare esperienza tramite i videogiochi, beh, lo vedo estremamente limitante.
Ruan: penso che ci sia un vantaggio specifico nel raccontare, nel trasmettere un messaggio tramite un videogioco, ovvero che tu puoi trasmettere un messaggio o la morale di una storia, e chi gioca può anche non rendersi assolutamente conto di aver agito, di aver compiuto azioni che assecondavano quel determinato messaggio o quella determinata morale. E puoi farlo in così tanti modi, perché puoi proprio portarli a sperimentare eventi ed emozioni.
Ilaria: Diletta, riguardo la UX, la necessità di tenere conto del giocatore, di prendere decisioni e organizzare elementi del gioco in base a come pensi che questo agirà, lo percepisci come un elemento che ti aiuta nel processo creativo di narrazione e di realizzazione, o lo vedi come un elemento che comunque ti pone degli ostacoli? Perché con l’era dell’internet, e soprattutto con i videogames, l’utente è di colpo diventato un elemento centrale, cosa che non è praticamente mai stato per quasi tutte le altre forme artistiche.
Diletta: noi seguiamo un metodo che si chiama “iterative design”. Ovvero, Tutto inizia da un’idea, un’ipotesi che viene realizzata con un prototipo. Validi l’ipotesi con i test, interpreti i risultati, isoli il problema, proponi nuove soluzioni e realizzi un nuovo prototipo. È un ciclo di step che si ripete fino a quando tutte le correzioni sono state validate con successo.
Ilaria: è come una comunicazione continua. Tu vuoi comunicare un concetto, ma se l’altra persona non ha gli strumenti o non viene messa nella condizione per poter recepire il tuo messaggio allora la comunicazione fallisce.
Diletta: esattamente. Se non validi le decisioni con i tuoi utenti, allora non validi il tuo prodotto.
Ruan: come designer tu puoi pensare che una cosa sia divertente, che una cosa sia bella e che funzioni. Ecco, a volte hai ragione, ma non sempre. Specialmente quando pensi a delle meccaniche, che sono meravigliose nella tua testa, ma quando chiedi alle altre persone di interagire con quelle meccaniche e gli altri elementi del gioco, ecco lì è dove le cose possono andare storte.
Più riusciamo a costruire interazioni, elementi, che i giocatori riescono a testare, e più affidabile, più ci sentiamo sicuri di stare andando in una direzione sicura, perché li stiamo concretamente validando. Ci aiutano a rimanere su un percorso fattibile perché, beh, vogliamo davvero creare un gioco che le persone vogliano e possano giocare. Perché se non lo facciamo, se non diamo valore a questi elementi, qual è il motivo reale di tutto ciò?
Diletta: noi designer non possediamo una sfera di cristallo, non leggiamo la mente delle persone – anche se mi piacerebbe tanto farlo (risata) – quindi dobbiamo chiedere ai nostri utenti cosa piace e cosa non piace del prodotto. Così facendo siamo in grado di prendere delle decisioni più in linea con il business ma soprattutto per i loro bisogni.
Ruan: ovvio, l’esperienza ti può portare a cogliere per intuito cosa può funzionare e cosa no, ma è sempre tutto approssimativo. Quindi sì, c’è tanta intuizione, ma anche tanto testing, fallimenti di produzione e correzione.
Damiano: all’inizio, parlando delle vostre esperienze e del vostro background, ci avete raccontato di momenti di delusione e difficoltà. Ora, come sviluppatori indipendenti, come vi trovate? Com’è essere “indie”, avere il vostro flusso di lavoro e di organizzazione, gestirvi da soli?
Diletta: eh, allora. Lavorare per una compagnia significa fare ciò che puoi a seconda della tua specializzazione. Quando invece passi all’indie, beh, non devi solo organizzare, ma devi preoccuparti di ogni singolo aspetto. Per esempio, devo reclutare i tester, mandare gli inviti per email, od occuparmi della protezione dei dati. Avete presente tutto quello scritto nella privacy policy che nessuno mai legge? Esattamente quello! (risata)
Ruan: anche a un livello “basso” come il nostro, la mole di lavoro è enorme, perché essendo da soli dobbiamo tenere d’occhio ogni singolo aspetto.
Diletta: già, è un disastro. Bisogna essere preparati, anche solo mentalmente.
Ruan: in inglese si dice qualcosa come, e aiutatemi a tradurlo, “indossare più cappelli”.
Diletta: (risata) in italiano potrebbe essere il detto “rivestire diversi ruoli”. Sì, bisogna essere multitasking.
Ruan: è tutto molto più semplice quando sei appassionato per un progetto, ma spesso se hai solo uno slancio di passione rischi di lavorare su un progetto solo per poche settimane, e poi vai in burnout. Bisogna riuscire a trovare un equilibrio, che è estremamente delicato. Io per esempio non lavoro solo su questo progetto, ma ho anche un altro lavoro, e riuscire a bilanciare tutto è davvero difficile.
Diletta: una cosa importante è per esempio porsi degli obiettivi fattibili nel breve e nel medio periodo. Qualcosa che puoi vedere concretizzato e che ti dia anche solo la percezione di una continua progressione.
Ruan: un gioco completo, anche il più breve, richiede almeno un paio d’anni di lavoro, quindi se lavori costantemente con solo l’uscita del gioco come punto di arrivo, come obiettivo, allora ti sembrerà di non vedere mai nulla di concreto, ed è qualcosa che può essere veramente demoralizzante.
Damiano: come vi sentite riguardo questo essere liberi da un’azienda, da una mentalità aziendale?
Diletta: non dover rispondere a nessun altro all’infuori di me
Ruan: ehm, ci sarei anche io! (risata)
Diletta: (risata) sì, è vero! Beh, per me è liberatorio. Mi sento davvero libera di potermi dedicare a qualcosa che davvero mi piace. Mi sveglio la mattina e non vedo l’ora di dedicarmi al progetto. Nella mia vita ho sempre viaggiato, cambiato posti di lavoro, città e amici per inseguire la carriera. Questa scelta ha avuto un prezzo e mi sembra di aver sottratto troppo spazio ad altri aspetti della mia vita. Mentre ora voglio arricchire le mie giornate di valore. Finalmente riesco a sentire quella sensazione di gioia, passione.
Ruan: ovviamente ci sono elementi estremamente stressanti, come, beh, i soldi. Un altro vantaggio però è che possiamo effettivamente attuare una nostra filosofia di sviluppo di cui abbiamo parlato fino ad ora, perché quando spesso guardi all’industria tripla A, o anche il mobile, quello che vedi sono persone che semplicemente parlano dell’attenzione verso i giocatori, e della creazione di un design strutturato per il giocatore, ma quando la scadenza si avvicina e si rischia di sforare la finestra di lancio allora la mentalità passa a un “facciamo così e i giocatori dovranno farselo piacere, o speriamo che lo facciano”.
Che uno potrebbe pensare sia una questione di profitto, perché se sfori la scadenza avrai una perdita in denaro. In realtà seguire e porre maggiore attenzione verso i giocatori è qualcosa che veramente può portarti profitto.
Damiano: l’accessibilità, invece? È qualcosa su cui ponete attenzione?
Diletta: l’accessibilità è un requisito base quando lavori alla user experience. Non possiamo evitarla. È importante integrare il concetto di accessibilità nella progettazione fin da subito, perché non solo aiuterà persone con disabilità ad avere più esperienze, ma potrebbe migliorare l‘esperienza di vita di ognuno di noi. Per esempio, noi abbiamo in programma di invitare ai test di usabilità anche giocatori con disabilità visiva e uditiva.
Ruan: sono d’accordo. Dal punto di vista tecnico, non è difficile applicare l’accessibilità. È più una questione di assicurarsi che nel design vengano applicati i requisiti di accessibilità.
Damiano: ultima domanda. Per quando potremo aspettarci l’uscita del vostro gioco?
Ruan: realisticamente parlando, un paio d’anni. C’è molta flessibilità in mezzo, ma grosso modo sì, un paio d’anni.
Diletta: sì, cerchiamo di organizzare tutto con precisione, ma è difficile, quindi sì, un paio d’anni è una previsione realistica.
Damiano: avete magari un piccolo consiglio per chi vuole provare a sviluppare un gioco indipendentemente?
Ruan: trovate qualcuno con cui sentite di poter avere una conversazione sincera. È il consiglio più importante che sento di dare. Perché ci saranno discussioni quotidiane su ogni singolo aspetto, e se non ci si sente liberi di parlare sinceramente e di esprimersi allora gli errori saranno certi e le cose andranno veramente molto molto male. Trovare qualcuno con cui potete avere scambi costruttivi.
Diletta: io invece sento di dover ricordare che creare videogiochi è un business serio. Volete guadagnare dai giochi che create? Volete stabilire un’attività? Considerate che questo non è un lavoro che fate solo per voi stessi, ma per i giocatori ai quali vi volete rivolgere.
Io mi sento sempre piccola piccola quando mi trovo a parlare con persone tanto capaci e appassionate. Le domande sembrano sempre troppo banali, e le loro risposte sempre splendide.
Avrei voluto bloccarl* e sentirl* parlare ancora e ancora, soprattutto perché del loro gioco non abbiamo avuto occasione di parlare nello specifico. Ma spero vivamente che per quello si presenterà un’altra occasione, intanto, grazie infinite a entramb*!