In quest’ultimo mese sono successe tante cose, ma l’argomento di questa puntata è venuto in modo abbastanza naturale. Sia io (ciao sono Damiano dei Maneskin) che Ilaria (dei Maneskin?), abbiamo scelto di parlare di Hogwarts Legacy, ma senza parlare del gioco.
Vogliamo riflettere su tutto ciò che è girato attorno, sugli avvenimenti nel web, sulla necessità di riappropriarci di alcuni spazi e di cambiare il sistema di informazione videoludica. Insomma, è una puntata su Hogwarts Legacy, ma soprattutto non su Hogwarts Legacy.
Prima di cominciare questa puntata, ci teniamo a evidenziare che in questi giorni ha chiuso il sito di informazione e critica 17K Group. Un’altra voce nel web abbassa le serrande, e forse anche questo dovrebbe farci tornare a riflettere sul nostro futuro e sulla sostenibilità di un progetto editoriale durante un periodo di crisi.
I disegni sono, come sempre, di Camilla Fasola. Seguitela, altrimenti ci arrabbiamo. La revisione della newsletter è sempre di Matilde Ulivi, nostra revisora di fiducia. La foto di copertina è di Li-An Lim da Unsplash.
Stay Nerd ci ha intervistato per parlare delle newsletter al servizio del giornalismo videoludico.
Peggio della Gazzetta del Profeta
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Partiamo da una considerazione dolorosa: l’uscita di Hogwarts Legacy ha mostrato il peggio dalle persone, e nel giornalismo abbiamo fatto poco per cercare di arginare questa risacca reazionaria e transfobica. Le persone trans sono state vendute per qualche click e per il desiderio recondito di giocare in un mondo che ha fatto parte dell’immaginifico della nostra infanzia.
È emerso un altro problema, l’ennesimo, nel nostro amatissimo settore: la mancanza di diversità. Wired ha fatto la cosa più giusta a livello editoriale. Affidare la recensione, o comunque la scrittura di un articolo di opinione provocatorio, a una giornalista trans. In Italia noi non lo abbiamo fatto, perché nelle redazioni mancano punti di vista differenti da quello maschile cis, per cui dimostriamo, nuovamente, di essere indietro.
Il settore dell’informazione, come abbiamo spesso ribadito, ha diversi problemi. Oltre a quello della diversità, c’è quello della sostenibilità editoriale ed economica, nonché della mancanza di fiducia e responsabilità. Ora, fermiamoci un attimo a ragionare. Visto che questi sono problemi noti, lapalissiani, perché continuiamo imperterriti a non fare niente? I titoli clickbait con cui è stato strumentalizzato il boicottaggio, invece di proporre analisi, riflessioni e divulgare cultura, hanno intorbidito linee editoriali già discutibili e confuse, inquinando l’infosfera del videogioco e dimostrando che non c’è responsabilità editoriale, che è ancora tutto un po’ un gioco. Insomma, la cavalcata del meme per diventare virale, per fare i simpatici guasconi, senza renderci conto che stiamo scrivendo articoli per qualcun*. Eh già, non scriviamo solo per gonfiare la nostra pappagorgia e mostrare a tutti che abbiamo un’opinione basata, nel migliore dei casi, su cosa abbiamo letto recentemente, nel peggiore, sul nulla cosmico.
Tornando a noi, e semicitando di Marco Pannella, se sappiamo che ci sono dei problemi, e che sono gravi, non dobbiamo stare fermi a preoccuparci, ma dobbiamo invece occuparci della questione. Proviamo a rompere un tabù, di nuovo. Cominciamo a parlare più spesso di politica, cominciamo a schierarci. Cominciamo a capire che non possiamo fare il nostro lavoro cercando di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Che così si rischia di scontentare tutt* e di non fare un buon servizio a nessun*.
I giornali, questa cosa, l’hanno fatta da sempre. Sappiamo perfettamente che Il Manifesto è un quotidiano comunista, che Il Giornale è di destra, che La Stampa è di centro-sinistra. Visto che i videogiochi sono la forma di intrattenimento più diffusa al mondo, e che la loro storia ha radici nel business ideologico californiano. Forse, e dico forse, cominciare a includerli nel reame politico è il modo giusto per dare risalto a questa forma d’arte e per accendere un dibattito.
Uscirà fuori che qualcun* è un po’ più di destra, chi invece è più liberista, chi invece è di sinistra, liberale, socialista o comunista. Ma questo almeno è chiaro a chi legge e non rimane continuamente offuscato nella speranza di raccogliere click. Perché non c’è niente di peggio dei fascisti che si credono liberali solo per pagare meno tasse e per continuare ad insultare le comunità marginalizzate.
Magari ci sbagliamo, o magari no. Ma quantomeno proviamoci. Mantenere le cose così, abbiamo visto, funzionerà in termini economici, ma non funziona in termini di fiducia dei lettor*. E quando se ne vanno quell*, cominciano a mancare anche i soldi. È svilente pensarci solo come i giornalisti di un passatempo, perché questa è la narrativa che ci è stata affibbiata, non quella che vorremmo, e che dovremmo avere.
Divieto di sosta e di fermata
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Avete presente quella sensazione di essere a tanto così dalla rivelazione che potrà cambiare il vostro modo di comprendere e osservare la vostra esistenza? Quel “ce l’ho sulla punta della lingua” che però è mentale, non si sente all’altezza del palato molle ma proprio nella parte posteriore del cervello; ecco sì, è un “ce l’ho sulla pieguzza del lobo occipitale madò è lì lì ora mi viene eh”, avete presente, vero?
Ecco, io ultimamente mi trovo in questa situazione quando cerco di ragionare sul concetto di spazio. Non come (erroneamente) sinonimo di cosmo, ma proprio come area, volume definito e non, come quella cosa che possiamo abitare, occupare, attraversare, rompere, definire, distruggere e creare semplicemente scegliendo di esserci o meno. Sì perché da quando la pandemia ci ha costrett* a ripensare al concetto di spazio (dal semplice “tenete un metro di distanza” al “mettiamo in scena l’Edipo re di Sofocle via Zoom, ognun* recitando dalle proprie case”) io sono entrata in un dedalo di pensieri e non ne esco più. Aiuto.
Piano piano lo spazio pubblico è migrato dalla piazza, dagli ambienti cittadini (e, appunto, “pubblici”) e di incontro fisico, all’interno delle nostre case, dove siamo noi a dettare le regole di come questo nuovo spazio pubblico – o ex privato, o finto spazio pubblico – può essere visto e usufruito, e lo facciamo scegliendo che sfondo della webcam usare, cosa inquadrare nel selfie, che secondi tagliare durante il montaggio del reel. Da qui infatti poi si entra nel discorso di quello che è lo spazio digitale, che sembra impalpabile, senza confini. Insomma, di questo spazio, che pare più immateriale di qualunque altro, ce n’è in abbondanza. Se il suolo su cui possiamo sederci e lo spazio aereo che possiamo mangiarci via aggiungendo piani su piani sono effettivamente misurabili, a quello digitale non riusciamo a dare dei confini. Riusciamo a definire degli ambienti però, quello sì. Costruiamo social, realtà aumentate, luoghi che possiamo abitare con una nuova presenza di noi, così da definire quel pezzo di spazio. Ah, però qui io torno a incartarmi, perché ho detto “nuova presenza di noi”, e allora mi chiedo in che modo il nostro corpo, come ambiente, come spazio occupato dalla nostra presenza fisica e mentale, si ridefinisca in quello che è il digitale.
“Ma perché ti fai così tante turbe mentali su ‘sta cosa? Che ti frega?”
Ecco, mi frega perché è importante capire che spazio si occupa, e che spazio ci viene impedito di occupare.
“In che senso?”
Abbiamo detto che l’internet è potenzialmente infinito: possiamo costruire nuove piazze, nuovi luoghi di aggregazione, nuove realtà, nuovi ambienti ancora e ancora. Ecco, ma non tutti gli spazi sembrano avere la stessa rilevanza, e non a tutt* è concesso accedervi, avere per il proprio corpo digitale uno spazietto al loro interno. Anzi, non è nemmeno concesso a tutt* anche solo avercelo un corpo digitale (o un corpo, e basta).
Uno spazio infinito fatto di spazi infiniti, dove però alcune identità non trovano spazio.
[Vi do il permesso di ricominciare l’articolo da capo e di avviare un “drink game” per ogni volta che dico spazio. Fatemi poi sapere come va, che ci tengo.]
Cioè, avete capito perché ci divento matta? Perché mi arrovello costantemente su questa situazione? Anche perché lo spazio digitale e quello fisico sono sempre di più collegati, hanno dei confini sempre più labili, quindi tutti questi traslochi di importanza non vanno ignorati!
Come facciamo? Dove stanno i cartelli con le indicazioni? Dov’è Bear Grylls che mi dice che questo pixel è un pixel, e che questa ram è una ram?
Ma, soprattutto, come occupiamo questi nuovi spazi? Come facciamo a far sì che il digitale non divenga (o resti) uno spazio dove poter escludere, discriminare e ignorare chi nel mondo AFK ha iniziato ora a dire “ehi merde io esisto, non potete ignorarmi, e non potete non sentire le mie parole e non vedermi”?
Dipende dal contesto, immagino. Anzi, dipende dal luogo, dall’ambiente digitale nella quale si vuole occupare quello spazio. Dunque, che senso ha per le persone che si occupano di attivismo stare anche sui social? Perché sono piazze, e ‘fanculo le piazze si occupano. “Ma ci sono le bolle”. Vero, ed è effettivamente un problema, ma facendo rete si possono ottenere risultati interessanti.
E che senso ha mettere un 1 su 10 come voto a un videogioco intorno al quale si muove non poco dibattito riguardo le posizioni trans escludenti della detentrice della proprietà intellettuale? Senza contare le posizioni un poco tanto problematiche a livello di ideologie razziste da parte di alcuni membri del team di sviluppo su un sito che conta un ampio bacino di utenti.
Aaaaaaah, eccallà, dai lo avevate capito che volevo portarvi qui, su, non fate gli gnorri.
La persona che ha scritto quell’articolo ha capito male la consegna che le è stata affidata? Voleva mandare l* sviluppator* in bancarotta? Voleva prendervi in giro promettendovi un determinato contenuto per poi ferirvi nell’orgoglio e costringervi a prendere coscienza che ommioddio anche quando si ha a che fare con i videogiochi si ha a che fare con la politica? Come ha osato!
Jaina Grey ha occupato uno spazio, e lo ha fatto perché in ogni caso quello spazio su Wired qualcun* se lo sarebbe preso, così ha deciso di farlo lei, e lo ha fatto portandosi dietro un megafono. Poco importa se avete trovato le sue parole poco attinenti al gioco, povere di argomentazioni che arricchiscono la conversazione e gli spunti, o se lo avete visto come eccessivamente personale. Poco importa, perché comunque l’internet è pieno di articoli sicuramente migliori, di saggi che analizzano dal punto di vista psicologico e socioculturale il mondo di Harry Potter, ma è anche pieno di articoli copia e incolla, e di voti alti o medio-alti dati per quieto vivere. Il gioco non ha subìto alcun danno dall’articolo di Grey, e la “minoranza molto rumorosa” (cit. Chiunque mannaggia a voi) ha solo usato un’altra occasione per versare pietose lacrime da coccodrillo (o per testare i filtri di TikTok).
Per ogni spazio occupato da persone appartenenti a una categoria marginalizzata, ne vengono occupati altri dieci da chi, con la scusa della libertà di parola, genera violenza, paura e discriminazione. Quindi, torno al mio dubbio iniziale: come li espropriamo?
Un’intervista a Jemima Tyssen Smith, scrittrice di OlliOlli World, su skate culture, anticapitalismo e riappropriazione dello spazio urbano. Potete leggere la versione italiana su Videogiochitalia.it.
Non sono ver* amic* se non ti consigliano indie
Riot: Civil Unrest, proteste in pixel art
2 minuti di lettura
Conosco Riot per caso e scopro che è un videogioco italiano che cerca di raccontare le proteste, sia dal punto di vista dei manifestanti che dal punto di vista della polizia. Un progetto ambizioso, che affronta scenari facenti parte della cronaca e che prova a coinvolgere i giocatori nel conflitto, stimolando la riflessione.
In un periodo in cui la democrazia è un valore da difendere, e che in alcune parti del mondo manca il diritto a manifestare, con la polizia che seda con la violenza manifestazioni pacifiche, questo gioco può essere spunto di riflessioni potenti e che va approcciato con questa chiave di lettura.
Come l* sviluppator* hanno scelto di rappresentare entrambe le parti? Che voi abbiate partecipato o meno a manifestazioni nella vostra vita, Riot: Civil Unrest è un’esperienza interessante, limitata dal punto di vista tecnico e del gameplay, ma comunque di grande valore.
Sviluppator*: IV Productions
Disponibile su: Nintendo Switch, Microsoft Windows, PlayStation 4, Xbox One
Prezzo: €16,99 - €19,99
Durata: 5 ore
Collegh* fanno cose
Giulia Martino su Final Round tesse un articolo dove ogni parola intreccia Philip K. Dick e Disco Elysium.
Gloria Comandini, sul sito Cercatori di Atlantide, spiega e approfondisce le problematiche relative all’acquisto di Hogwarts Legacy.
Marco Bortoluzzi su Frequenza Critica scrive un articolo abbastanza esaustivo dal titolo “Politica, videogiochi, all live matters e altre favole”.
Manuel Berto per The Game Machine ci ricorda che bisogna continuare a parlare di This war of mine perché sì.
Ilaria Celli e Maura Saccà dialogano con Tiziana Pirola sulla sua tesi Gamer/girls, La cittadinanza condizionata delle donne nel campo videoludico, vincitrice del premio IVIPRO come migliore tesi sui videogiochi.
Addio, Addio…
Lo abbiamo sempre detto, no? Still Alive brucia i reggiseni in piazza e alza il pugno al cielo.
Ilaria però ormai non usa più reggiseni dal 2017, quindi ha deciso di bruciare i suoi crediti formativi in stilistica del testo e scrivere qualcosa che nemmeno lei capisce. Damiano invece è bravo e puro, e quando ha bisogno di manifestare rabbia e dissenso lo fa con una lucidità che oh, che gli vuoi di’? E comunque neanche lui indossa più reggiseni dal 2017.
A questo giro, se siete arrivat* alla fine vi meritate veramente un grazie enorme, perché siamo consapevoli di non aver scelto un argomento leggero, e anche di non averlo trattato in modo semplice (perché noi ci sforziamo a buttarla un po’ sul ridere, ma sono argomenti complessi).
Noi come sempre aspettiamo i vostri commenti qui in newsletter, e anche di iniziare qualche bella discussione sul nostro canale Telegram.
A presto!