Era una notte buia e tempestosa. Anzi, qui noi stiamo in pianura padana (vabbè, ci sto io, Ilaria; Damiano è in Piemonte ma vabbè so’ dettagli), quindi riformulo per rendere il tutto più realistico.
Era una notte buia e nebbiosa, illuminata solamente dai 75 locali notturni del quartiere con le luci al neon, dai fanali con gli antinebbia accesi anche se si è in centro abitato e si rischia di creare un tamponamento a ogni incrocio, dalle luci delle vetrine lasciate accese tutta la notte perché qui si fattura anche quando non si fattura, e dai lampioni tenui, perché bisogna risparmiare sull’elettricità.
In questa notte di luce artificiale e di muri di condensa, i nostri prodi eroi si accingono a premere invio, così da pubblicare il primo numero dell’anno della loro piccola (“ma carataristica” [cit.]) newsletter.
Un numero dolce, ma rapace. Una puntata critica, ma con una morale (forse). Una Still Alive che vuole cominciare l’anno nuovo ricordandovi che siamo tutt* fatti di storie.
L’illustratrice dei nostri sogni è, come sempre, la fantasmagorica Camilla Fasola, che non ci stancheremo mai di ringraziare e di consigliare i lavori. E, nascosta sotto il ponte, pronta a impedirci di attraversare il fiume senza un adeguato controllo testuale – o senza sbranarci un polpaccio – c’è la nostra adorata Matilde Ulivi! L’immagine copertina di Substack è di Etienne Girardet su Unsplash.
Stay Nerd ci ha intervistato per parlare delle newsletter al servizio del giornalismo videoludico.
Baffi, videogiochi e antimafia
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Pino Maniaci conduce il notiziario di Telejato, una rete regionale siciliana che ha fatto dell'antimafia il suo cavallo di battaglia. Maniaci in un’edizione dello scorso anno, aveva fatto gli auguri a Matteo Messina Denaro, invitandolo in diretta a costituirsi per tutti i crimini che aveva compiuto. Negli anni ha subito minacce di morte e aggressioni fisiche, come moltissimi altri giornalisti che si occupano di antimafia.
Il giorno dell’arresto del latitante di Cosa Nostra, Pino Maniaci ha mantenuto la promessa di tagliarsi i suoi folti baffi, che lo hanno caratterizzato in questi anni. «Cinquant’anni di onorato servizio» afferma alla fine del taglio. Poco dopo ha lanciato il servizio sull’arresto di Matteo Messina “Soldino”, come lo ha chiamato lui, dicendo: «tra poco brindiamo, ma prima vediamo il servizio sulla cattura di questo pezzo di merda».
Perché vi ho raccontato questo frammento di storia su Pino Maniaci? Perché la sua storia è anche quella di molti altri magistrati e civili che negli anni si sono impegnati nel contrasto alla mafia. Nonostante le minacce e la paura, hanno continuato con coraggio la loro attività di informazione e denuncia.
Nella rappresentazione della criminalità organizzata nei videogiochi, in alcuni casi dipinta come regolatore del mercato nero o come una gigantesca holding di interessi economici, mancano queste persone.
Le storie sui criminali a cui siamo abituati, vedono i giocatori vestire i panni di personaggi che scelgono di contrastare un gruppo di criminalità organizzata perché fanno parte, a loro volta, di un altro gruppo criminale, con una conseguente lotta per il potere, oppure perché sono membri delle forze dell’ordine. La classica narrazione di Sleeping Dogs, a sua volta ispirata al film Infernal Affairs, in cui interpretiamo un poliziotto sotto copertura nella pericolosissima Triade a Hong Kong.
Oppure in Mafia III, in cui interpretiamo un giovane italo-haitiano che vede la sua famiglia, anch’essa coinvolta in attività criminali, uccisa da un mafioso italo-americano, con il conseguente desiderio di vendetta e scalata al potere per affrontarlo vis a vis. Queste sono le due narrazioni dominanti nei videogiochi per quanto riguarda la criminalità (peraltro sempre vista come qualcosa di maschile).
La mafia è spesso interpretata come una forma di anti-stato, la cui risposta logica è quindi più presenza di stato, di forze dell’ordine. Questa è una delle possibili interpretazioni del fenomeno e concetto mafioso, ma che in diversi punti si dimentica di altri individui. Individui come Pino Maniaci, esponenti della società civile. Persone che subiscono quotidianamente e territorialmente gli abusi e gli orrori della mafia. Negli anni in Italia sono nate tante associazioni che hanno detto a gran voce “basta” e hanno fatto una guerra culturale alla mafia, risvegliando coscienze e spronando al coraggio, nel tentativo di stracciare il velo di omertà.
Proprio alla luce di questo lavoro culturale, affermare che ancora regna l’omertà significa vanificare l’impegno di queste persone, che nella narrativa videoludica (talvolta anche in quella giornalistica e nel cinema) sono i primi a essere dimenticati in favore di un’azione sfrenata e della spettacolarizzazione della criminalità senza alcuna cartina al tornasole morale. Praticamente qualunque gioco sulla mafia, o sulla criminalità organizzata, è la reiterazione del tema guardie e ladri: intrigante in termini di coinvolgimento, ma stancante se è l’unica narrazione presente. A volte agghindata con incroci, sfumature e doppi giochi alla The Departed (anch’esso ispirato ad Infernal Affairs di cui prima), ma il succo è sempre quello. Un blockbuster come GTA ne è la conferma, persino nella sua componente online.
Se giochiamo nei panni di un criminale, un mafioso, è solo la polizia che cerca di fermarci, nessun altr*. Non ci sono altre collettività, cittadini che si oppongono al nostro agire, che collaborano con la giustizia, non ci sono i pentiti di mafia. Perché non possiamo giocare un titolo a tema criminale in cui interpretiamo un membro della società civile che si oppone all'oppressione mafiosa?
La spettacolarizzazione ha conseguenze e no, non parlo di violenza e di influenza sulle “giovani menti” che potrebbero delinquere, con la solita retorica del “qualcun* pensi ai bambini!”. Le rappresentazioni influenzano la realtà, come la realtà influenza la rappresentazione: questo è il gioco. In università, all’epoca, il mio professore di sociologia della criminalità organizzata ci faceva vedere le immagini segnaletiche di Matteo Messina Denaro con i Ray-ban e le giacche di pelle come un gangster americano da film.
Il videogioco, dal punto di vista della rappresentazione del fenomeno mafioso, deve maturare e coinvolgere queste collettività che spesso, e volentieri, ha dimenticato per dare spazio, invece, alla superficialità di un orrore che in Italia, purtroppo, viviamo quotidianamente. Beati loro che vivono in una favola.
C’era una volta, tanto tanto tempo fa, credo fosse lo scorso martedì…
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Non ho ancora guardato la prima puntata della serie di The Last of Us.
Così, lo metto in chiaro fin dalla prima riga. Ma non l’ho guardata non perché abbia paura di come sia venuta fuori, o perché ho letto recensioni a favore e quindi ho paura di aver alzato le aspettative o, al contrario, abbia sentito talmente tanti pareri negativi da non volermi rovinare quasi un’ora del mio tempo (presumendo che duri intorno ai 45/50 minuti, non ne ho idea). Non l’ho ancora guardata semplicemente perché ho preferito fare altro in quei rari momenti in cui dimentico di soffrire di ansia cronica e di panico da cose da fare. Tipo, ho iniziato Inscryption, e mannaggia a me lo amo; mi fa tornare in mente ricordi traumatici legati a una me preadolescente dipendente da Magic e dalle creepy pasta lette nel buio della mia stanza alle 3 del mattino, ma lo amo.
Però ecco, The Last of Us è tornato a riempire le homepage dei nostri amati e odiati siti di informazione videoludica, ed è quasi impossibile non tornare a interrogarsi su ogni tema, su ogni dettaglio narrativo e di rappresentazione di entrambi i capitoli.
Io faccio parte di quella fetta di fandom che spera tanto che la serie colga l’occasione per migliorare alcuni aspetti legati soprattutto alla psicologia e al comportamento dei personaggi. Per esempio, nel videogioco per me Joel è una figura paterna orribile per Ellie – giuro che questo mio punto di vista prima o poi ve lo spiego meglio, mettete giù le torce e i forconi (per il momento) – e il loro rapporto è basato su una risoluzione dei conflitti che trova esito solo nella violenza e nelle situazioni di estremo pericolo. Ecco, spero che nella serie o sistemino questa cosa, o non abbiano timore di rappresentarla in tutta la sua crudezza.
Insieme a un amico, giusto un paio di giorni fa, ho ragionato (e mi sono accorta) su come la figura di Lev sia stata usata malissimo! Lev è un personaggio pieno di potenzialità narrative, ma da un certo punto in poi diventa un pupazzo per far immergere l* giocator* in una sorta di pornografia del trauma delle persone trans.
Insomma, anche a distanza di anni ce ne sarebbero di cose da dire su The Last of Us.
Ma in realtà in questo mio spazio di newsletter non è del gioco o della serie che volevo parlare, ma della necessità di creare nuove storie. Anzi, della necessità di accettare e comprendere che non possiamo vivere con gli stessi archetipi, con gli stessi modelli narrativi, con storie che non mutano e che non sono in grado di adattarsi a noi. Perché non possiamo prendere storie che fanno parte del passato, e pretendere di vederci dentro ciò che siamo ora.
Mi spiego meglio, prima che davvero vi facciate sedurre da quei forconi.
L’atto di raccontare storie, di tramandare racconti, di creare fiabe, favole, miti, eroi, archetipi, è uno dei fattori che ci ha permesso di evolvere come specie. Senza il racconto dell’animale feroce che attende nella foresta e che ci può sbranare se usciamo di notte, non avremmo imparato a starcene con il nostro gruppo al sicuro vicino al fuoco una volta tramontato il sole. Senza le favole dove gli animali diventano allegoria del comportamento umano non avremmo mai imparato a sviluppare senso critico e diffidenza verso chi non conosciamo; mentre senza i racconti di viaggio, i miti dei regni lontani, e senza le leggende di culture diverse dalla nostra, invece, non avremmo mai imparato che spesso la paura è causa di ignoranza, e che la curiosità è l’arma migliore.
Però, ecco, vedete? Ogni racconto evolve con la società che lo produce. Oggi un genitore che per aiutare lo sviluppo dell* figli* l* legge le favole di Esopo prima di andare a dormire o è idiota o fa parte di Casa Pound. Ah no aspe’…
Non dobbiamo dimenticare il passato, non dobbiamo rinnegare le storie, i miti, i poeti fiorentini del ‘300 – io, e giuro che questo è l’unico commento che farò sulla faccenda, spero per il bene di Dante stesso che mannaggiacazzo venga tolto dai libri di scuola superiore, perché davvero non se lo merita di finire costantemente nelle bocche di chi di letteratura e di storicizzazione non ci capisce una fava -, di leggere le tragedie di Euripide, i faldoni delle Terre di Mezzo o le avventure di chi perde il senno e deve attendere che un compagno vada sulla luna per recuperarglielo. No. Ma non possiamo rimanere legati ad esse. È difficile, a tratti doloroso, ma dobbiamo imparare a lasciar andare le storie che ci hanno cresciuto. Dobbiamo capirle, sviscerarle e, una volta possedute, stravolgerle, per poi raccontarle in veste nuova o, meglio ancora, raccontarne di nuove.
Una volta le storie venivano raccontate intorno al fuoco, o al lume di candela, ma ora quel momento di condivisione della conoscenza, di insegnamento e di racconto che permetteva di tramandare la memoria e l’esperienza è mutato. Non c’è più il tepore nel fuoco, o il palcoscenico che viene costruito in fretta e furia nella piazza principale per poi essere smontato a performance finita. Il luogo di raduno è migrato lentamente dallo spazio esterno della comunità, della piazza, degli incontri, all’intimità della casa, dove siamo noi a decidere chi o cosa far entrare. Ma abbiamo sempre bisogno di storie; abbiamo bisogno che ci vengano raccontate, abbiamo bisogno di raccontarle e abbiamo bisogno di viverle, per poter imparare ad affrontare il mondo.
Ok, alzate pure i forconi adesso.
Un’intervista a Jemima Tyssen Smith, scrittrice di OlliOlli World, su skate culture, anticapitalismo e riappropriazione dello spazio urbano. Potete leggere la versione italiana su Videogiochitalia.it.
Non sono ver* amic* se non ti consigliano indie
Pilgrims: vuoi la mia pistola? Portami un polpettone di pesce
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“Deciso a rompere quel che credevo un torpore delle lingue dopo le fatiche del viaggio, feci per sbottare in un'esclamazione clamorosa come: «Buon pro!» «Alla buon'ora!» «Qual buon vento!»: ma dalla mia bocca non uscì alcun suono. Il tambureggiare dei cucchiai e l'acciottolìo di coppe e stoviglie bastavano a convincermi che non ero diventato sordo: non mi restava che supporre d'essere muto.
Me lo confermarono i commensali, muovendo anch'essi le labbra in silenzio con aria graziosamente rassegnata: era chiaro che la traversata del bosco era costata a ciascuno di noi la perdita della favella. […] A quel punto, sulla tavola appena sparecchiata, colui che pareva essere il castellano posò un mazzo di carte da gioco. Erano tarocchi più grandi di quelli con cui si gioca in partita o con cui le zingare predicono l'avvenire, e vi si potevano riconoscere a un dipresso le medesime figure, dipinte con gli smalti delle più preziose miniature. Re, regine, cavalieri e fanti erano giovani vestiti con sfarzo come per una festa principesca; i ventidue Arcani Maggiori parevano arazzi d'un teatro di corte; e coppe denari spade bastoni splendevano come imprese araldiche ornate da cartigli e fregi.”
Come nel Il castello dei destini incrociati di Calvino, in Pilgrims voi non siete altro che viandanti, seduti al tavolo di una locanda, incapaci forse di comunicare, di raccontare la vostra storia. Ecco che iniziate a giocare a carte, e una mappa si disegna lentamente sul vostro schermo. Vi muovete per le vie di questo regno illustrato su carta, comprendete i bisogni di chi incontrate, fate scambi, combattete, rapite, fate ridere e disperare e, in tutto questo, collezionate carte, unica testimonianza del racconto che avete creato.
Pilgrims è un gioco semplice, che con estrema facilità vi spinge a voler raccontare la stessa storia più e più volte, per provare a cambiarla sempre un po’ di più.
Sviluppator*: Amanita design
Disponibile su: Nintendo Switch, Microsoft Windows, iOS, Linux, MacOS
Prezzo: € 6,99
Durata: 1 ora. E poi un’altra, e poi un’altra…
Collegh* fanno cose
Stefania Sperandio, sulle pagine di Spaziogames, ha interpellato il game designer Matteo Sciutteri per parlare dell’utilizzo delle IA nei videogiochi
Lorenzo Fantoni è volato a Las Vegas per provare il PlayStation VR2, ha scritto le sue impressioni su Italian Tech
Massimiliano Di Marco, nella sua newsletter Insert Coin, ha parlato di come il mercato dei giochi fisici valga ancora miliardi di euro
Giacomo Conti su MMO.it scrive della probabile regolamentazione delle lootbox nell’Unione Europea
Ilaria Celli e Maura Saccà dialogano con Tiziana Pirola sulla sua tesi Gamer/girls, La cittadinanza condizionata delle donne nel campo videoludico, vincitrice del premio IVIPRO come migliore tesi sui videogiochi.
Addio, Addio…
Anche questa puntata di Still Alive giunge al termine. Speriamo che il vostro 2023 sia iniziato nel migliore dei modi. Noi non ci capacitiamo di come siamo riusciti a superare il 2022 senza diventare matt*, ma questo, ad onor del vero, lo avevamo già pensato per il 2021, e il 2020, e il 2019…
Insomma sono anni difficili per tutt* e abbiamo deciso di riflettere sulle favole che ci raccontiamo e su come queste evolvono nel tempo. Perché in fondo al nostro cuore c’è il desiderio di belle storie, ben raccontate. E speriamo che il 2023 riesca ad essere portatore di questo cambiamento. In questo clima di incertezze, si sente la mancanza di una storia che possa instillare un po’ di speranza per il futuro.
Vi ricordiamo di entrare nel nostro canale Telegram per tutti gli aggiornamenti su Still Alive, e, come al solito, i nostri canali sono sempre aperti per feedback, consigli e chiacchiere. Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatte le storie, ovvero piene zeppe di refusi. Talvolta scappa anche un congiuntivo sbagliato, per questo la chiamano congiuntivite.
Ma che bella questa puntata, stra apprezzata
Ma quanto è bella questa NL? Congrats!