Vi è mai capitato di dire, più o meno ironicamente, che le giornate dovrebbero essere più lunghe per riuscire a fare tutto ciò che si vuole, e si deve, fare. Magari riuscendo ad aggiungere anche quelle fantomatiche otto ore di sonno che non guastano mai. In questi ultimi anni il nostro tempo a disposizione è sempre meno. Lavoriamo mediamente di più: i nostri impegni e le responsabilità ci tengono lontani dai momenti di svago. I ritmi, inoltre, sono più veloci e la hustle culture continua imperterrita a dominare la narrativa sul lavoro.
In quest’ultimo mese ha fatto notizia lo sciopero del settore doppiaggio, ora sospeso anche se si mantiene il cosiddetto “stato di agitazione”. Il tema del tempo è centrale nelle loro rivendicazioni. La localizzazione e il doppiaggio, come ben sappiamo, sono dei settori in cui spesso il tempo a disposizione è poco e ci si ritrova a lavorare in condizioni disagevoli. I doppiatori e le doppiatrici lavorano quasi in contemporanea con la messa in onda in lingua originale, dovendo realizzare un doppiaggio completo e di qualità di un episodio a settimana. In aggiunta, svolgono questo lavoro con riferimenti inadeguati: sceneggiature che cambiano in corso d’opera, filmati in bianco e nero con filtri anti-pirateria che impediscono di vedere le espressioni degli attori. Talvolta, questo è più frequente nel doppiaggio videoludico, l’unico riferimento è un’onda sonora.
Proprio a seguito di questo sciopero, che chiede il rinnovo a aggiornamento del loro CCNL (Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro) fermo al 2008, abbiamo scelto il tempo come tema di questa puntata di Still Alive. Questa scelta ci permette anche di spendere qualche parola in più su un altro avvenimento. A proposito di tempo che scorre, questa newsletter compie ben due anni. L’11 Marzo del 2021 veniva infatti inviata la prima puntata di Still Alive a un bacino di trenta iscritt* (potete recuperarla qui se vi piace il vintage). Ora siamo 176 persone e non possiamo fare altro che ringraziarvi, davvero. Grazie a tutte le persone che ci sono dall’inizio, a chi è arrivat* dopo e anche a chi si è iscritt* solo recentemente e questa è la prima puntata che riceve. La vostra mail è un atto di fiducia che cercheremo di non tradire. A questo proposito, sia io che Ilaria ci teniamo a ricordarvi che per qualunque cosa: commento, critica, appunto; siamo a vostra completa disposizione.
Come al solito ringraziamo la fantasmagorica Matilde Ulivi, che ci dà una mano nella revisione, e l’adorabile Camilla Fasola per le illustrazioni.
Nb.: Prima di lasciarvi alla puntata di questo mese vogliamo anche consigliarvi di andare sul profilo Instagram di Kenobit che, insieme ad altre realtà legate al mondo videoludico, sta facendo partire un progetto veramente molto interessante a tema videogiochi e riappropriazione degli spazi in cui il mondo videoludico si muove, Zona Warpa, e noi non possiamo che esserne entusiast*!
Vi consigliamo un evento
Un mese
5 minuti di lettura
Non faccio questo lavoro da tantissimo, sono circa sei anni. Che sono un po’, certo, ma rispetto ad altr* collegh* sono un gagno (piemontese per “ragazzetto”) e ho sicuramente ancora tante cose da imparare, nonché tanti errori da fare. Comunque, dopo sei anni che scrivo di videogiochi, nello specifico recensioni, mi è capitato in quest’ultimo mese, per la prima volta, di avere tanto tempo a disposizione per giocare un gioco e scrivere un pezzo.
In passato mi sono occupato di MMO, ne ho recensito qualcuno. Il tempo in quel caso è estremamente importante, poiché è fondamentale capire i sistemi di gioco, le meccaniche e la struttura di tutta la produzione. Senza contare il contenuto endgame, la linfa vitale di questi giochi. Sarò sincero, non so se mi riusciva bene, ma almeno ci ho provato e non ho rimorsi da questo punto di vista. Per tutte le altre tipologie di recensione, invece, la storia è sempre stata ben diversa. È la norma (per motivazioni varie) ricevere la chiave il giorno dell’uscita, oppure qualche giorno prima. Se si riceve una settimana prima dell’uscita siamo già in zona privilegio e possiamo giocare in anteprima sorseggiando uno di quei cocktail con l’ombrellino hawaiano e il bicchiere con motivi tiki.
Per The Wreck il discorso è stato completamente diverso. Mi contattano i PR del gioco con tutti i dettagli per richiedere la chiave e, dopo aver specificato la mia piattaforma, mi mandano una mail con embargo per il 14 marzo. Ho ricevuto questa mail il 15 febbraio.
Qualcun* potrà giustamente chiedersi: ma quanto è lungo questo gioco? Poco, circa 6 ore di gameplay. Il punto però non è la durata, bensì gli argomenti. The Wreck mi ha distrutto. Ho pianto come un bambino nel buio di casa mia, con il mio gatto che controllava periodicamente il mio stato mentale ogni mezzora. Inquadratura dopo inquadratura, l’ultimo lavoro di The Pixel Hunt mi ha assorbito e risputato. Distrutto e ricomposto. Un roller coaster di emozioni di raro pregio, con una sceneggiatura scritta maledettamente bene e un voice acting magistrale. Forse la cosa meglio scritta degli ultimi anni nel medium videoludico, azzardo questa affermazione.
Per riuscire a elaborarlo psicologicamente, l’ho giocato in differenti sessioni, riuscendo così a incastrare anche altri articoli e lavori. Il mese concessomi è sicuramente stato importante per poter digerire il gioco e tutte le tematiche che solleva: eutanasia, lutto, pensieri suicidi, relazioni tossiche. Tutti content warning che mi sono stati comunicati direttamente dai PR nella mail. Una cosa che non avevo mai visto fare. Si rendevano anche disponibili a ulteriori chiarimenti, prima di mandare le chiavi del gioco per la recensione. Dopo quella mail ho controllato la data sul computer per essere sicuro di non essere nell’anno 3000.
Sono riuscito a distribuire le ore, soffermandomi maggiormente nelle situazioni per osservare la composizione delle scene, per fare pausa, pensare a quanto esperito e poi a continuare. In tutto questo non vi ho dato molte informazioni sul gioco. Cos’è The Wreck? È un indie che non so quanto vedrete in giro. Si tratta di un’avventura interattiva sviluppata da The Pixel Hunt, lo studio francese diretto da Florent Maurin (giornalista) e che in passato ha prodotto Bury Me, My Love: un gioco che nelle mie stories di Instagram ho consigliato a tutt* voi, con particolare riferimento al Ministro Piantedosi. The Wreck ci fa conoscere Junon, una giovane sceneggiatrice in difficoltà che si trova con la gigantesca responsabilità di dover scegliere per la vita di sua madre Marie, sostenuta da macchinari medici e con scarse possibilità di vita anche con specifiche cure. Junon vede il mondo crollarle nuovamente addosso e i suoi traumi riaffiorano tutti. Un’incidente in macchina qualche anno prima le ha distrutto completamente la vita, separandola anche dal compagno e tagliando i ponti con amici e familiari, trascinandola in un isolamento distruttivo.
In tutto questo, l* giocator* entrano nei suoi ricordi e li ripercorrono. Li riavvolgono come una videocassetta, li esaminano, e cercano di capire il rapporto di Junon con il suo passato e con i suoi lati oscuri. Una meccanica di interazione semplice, ma che si rivela tremendamente adatta a supportare una sceneggiatura che indaga a fondo l’animo umano. Un videogioco intimista alla francese, che quelli sono bravissimi a raccontare quelle storie drammatiche che ti danno il colpo definitivo.
Una volta arrivato ai titoli di coda, The Wreck mi ha fatto però sentire sollevato. Come se avessi fatto una catarsi immersiva di sei ore. Ore che non baratterei con nient’altro e che custodirò avidamente nella mia memoria, poiché mi hanno portato a riflettere su alcuni aspetti del mio carattere sui quali ho problemi da sempre. E quelle lacrime sono state liberatorie, confortanti e necessarie.
Quel tempo è stato liberatorio, confortante e necessario. Una condizione di lavoro che possiamo considerare un unicum, per dirla alla “romanesca”, una roba che succede una volta ogni morte di papa (poco tempo fa, direbbe qualche buontempone che non sono io). Questa eccezione l’ho apprezzata e, in cuor mio, vorrei poter lavorare sempre così. Prendendomi il tempo necessario per fare le cose e per poterle elaborare al meglio.
Mannaggia
4 minuti di lettura
Oggi è il 19 marzo. Sì, ok, per voi è già il 20, ma io sto scrivendo “ieri”.
Quindi, oggi è il 19 marzo, sono le 9 di mattina e io già percepisco quel brivido, quel prurito che ti infesta il corpo quando sai che dovrai ancora avere a che fare con te stess* e con il mondo, perché oggi è la Festa del Papà. Ogni volta il mio cervello dimentica l’esistenza di questa festa, ma puntualmente i vari media, i canali telegram aggregatori di notizie e di dichiarazioni di esponenti politici, i cartelloni pubblicitari appiccicati alle pensiline, e anche le vetrine dei negozi, tutto ciclicamente torna a volermi ricordare di questa festa. Ora, giusto per mettere le cose in chiaro già dal primo paragrafo e farvi capire subito cosa ha mosso a questo giro il mio sproloquio mensile, mio padre è venuto a mancare 13 anni fa.
“Venuto a mancare”, vabbè, è morto. Improvvisamente, mentre io, mio fratello e mia madre eravamo lì in casa con lui. Non sappiamo il perché, semplicemente si è addormentato dicendo di sentirsi stanco, e non si è svegliato più.
Ormai le fasi del lutto le ho passate tutte, eh. Tranquill*. E infatti io non è che sia infastidita da questa festa, anzi; sono una grandissima fan delle Zeppole di San Giuseppe. È che continuo a dimenticarmene, e rendermi conto che la mia mente sente il bisogno di eliminare il ricordo di questa festa mi dà fastidio. Così come il fatto che continuo a dimenticarmi del suo compleanno. Mannaggia a me, ricordo a memoria un numero spropositato di password, anniversari, appuntamenti, nozioni totalmente inutili, ma il suo compleanno da alcuni anni continua a sfuggirmi. E dire che ricordo ancora a memoria il suo numero di cellulare. Beh, quasi tutto. Anche quello inizia a svanire.
“Sorella, dai retta a me, e gioca immediatamente Season.” Io devo smetterla di dare retta a Sorichetti. Lui sa, lui ha capito quali giochi finiscono per attaccarmisi addosso. Giochi che non chiedono il permesso, che si attaccano alla mia carne e la parassitizzano. Non è la prima volta che succede, e non sarà l’ultima.
Season: a letter to the future parla di memoria. Parla dell’identità dell’individuo, che si compone in base a ciò che ricorda e a ciò che dimentica. Parla della necessità di ricordare, ma mostra anche quanto si possa desiderare di dimenticare o, addirittura, di annullare la propria mente per abbandonarsi all’oblio e allontanarsi da una realtà troppo dolorosa da sopportare. Tre divinità reggono il mondo di Season, tre entità che non solo ascoltano le preghiere di chi si rivolge a loro, ma che scandiscono le Ere dell’esistenza umana, definendo i nodi della linea del tempo.
Divinità della natura dalle quali gli esseri umani provano anche a fuggire, allontanandosi dai santuari, tentando di rinnegare e dimenticare i loro culti raccontando alle nuove generazioni che sono malattie da cui bisogna proteggersi. Perché ricordare troppo è una malattia che disintegra la tua mente, così come dimenticare ogni cosa o addormentarsi per non svegliarsi più. E allora ti allontani, cerchi di nasconderti in un luogo sperduto, in cima a delle rupi, tra i costoni delle montagne, dove puoi mantenere l’illusione di avere il controllo su ciò che sei e sui tuoi ricordi.
Season – più di Gris, o di tanti altri giochi incentrati sull’identità, sul trauma – fa capire quanto la frase “il tempo sistema ogni cosa” sia una disgustosa bugia. Il tempo non sistema nulla. Il tempo contorce, ostacola, ti pugnala quando meno te lo aspetti, ti disintegra e ti ricompone a suo piacimento, e se tu nel frattempo non hai imparato come gestire tutti questi suoi colpi bassi, come difenderti, non puoi fare altro che sgretolarti e sperare di riuscire a vivere nella forma in cui ti avrà lasciat*.
Oddio, che pezzo drammatico che ho scritto. Ora vi racconto una freddura per tirarvi su di morale: stamattina ho lavato il caffè, era macchiato.
*aspettare la fine delle risate*
Insomma, mannaggia al tempo, mannaggia ai videogiochi, mannaggia agli amici che sanno sempre cosa consigliarti, mannaggia alle zeppole, e mannaggia a me. E, forse, mannaggia anche un po’ a te; auguri.
Collegh* fanno cose
Damiano Gerli (ndr bel nome) ha pubblicato un pezzo incredibile su Kotaku sui retroscena di Gioventù Ribelle, uno dei videogiochi maledetti prodotti nel nostro paese.
Massimiliano Di Marco ha giocato il nuovo videogioco di Gomorra, prodotto dallo studio torinese 34bigthings, e ha delle domande. Ne ha scritto su
Tiziano Costantini su Stay Nerd scrive la sua esperienza di visione della serie The Last of Us da persona che non ha mai giocato al gioco. Una simile prospettiva di analisi è stata proposta anche da Edoardo Ferrarese su Everyeye.
Maura Saccà su Frequenza Critica riflette sul concetto di fallimento nel game design videoludico.
Alessandro Redaelli ha realizzato nel 2021 il documentario Game of the Year, analizzando il panorama videoludico italiano, tra sviluppator*, Twitch, content creator ed e-sports. Lo potete guardare su Prime Video.
Addio, addio…
Ultimamente stanno venendo fuori delle puntate sempre più particolari, ce ne rendiamo conto. Abbiamo infatti deciso di essere un po’ più spontanei e di adattare ogni puntata di Still Alive a noi, a come ci sentiamo nei giorni in cui la componiamo. Così, un passetto alla volta, cerchiamo anche di capire che forma farle prendere, che parole farle trasportare, che sezioni e che voci farle accogliere.
Si cambia, ed è giusto così. Poi magari un giorno Ilaria si sveglia mitomane (più del solito) e la trasforma in una newsletter sui modi più fantasiosi di cucinare i broccoli, ma per ora non sembra esserci questo rischio. Forse.
Siete già nel nostro canale Telegram? No? Beh, potete rimediare facilmente!
"Abbiamo infatti deciso di essere un po’ più spontanei e di adattare ogni puntata di Still Alive a noi, a come ci sentiamo nei giorni in cui la componiamo". That's the way I like it.