La crisi climatica è un tema di enorme importanza, che si sta prendendo grande spazio nei media e nel dibattito pubblico (finalmente). La recente tragedia della Marmolada ha portato a grandi riflessioni sul tema, sul futuro del pianeta e sul ruolo che l’essere umano ha in tutto ciò, il giornalista Nicolas Lozito analizza molto bene la situazione nella sua newsletter “Il Colore Verde”. Mentre una rumorosissima minoranza continua ancora a negare l’emergenza climatica, nelle discussioni sui videogiochi la tematica continua ad avere pochissima eco; l’ambientalismo sembra un argomento inesistente nell’ambito Tech, in qualche modo distante nello spazio discorsivo e a livello percettivo. Tutto ciò, ancora una volta, ci riguarda in prima persona.
Essendo videogiocator* abbiamo questa orribile abitudine di fare i menefreghisti su molte, troppe tematiche. Non guardiamo all’inquinamento prodotto dalle stesse aziende videoludiche per cui facciamo il tifo spassionato, al consumo energetico delle nostre console o all’impronta carbonica che ha il gaming in generale. Per non parlare dell’inquinamento prodotto dal mining di cryptovalute e dal mining degli NFT.
Proprio per questo, la puntata di Still Alive di questo mese s’intitola Antropocene. Cos’è l’antropocene? Si tratta di una proposta epoca geologica in cui si vuole sottolineare l’impatto dell’essere umano sulla terra, gli ecosistemi, la biodiversità e il clima. Cerchiamo di affrontare la situazione, per ricordarci che quella sul cambiamento climatico è una battaglia che riguarda tutt* ed è, soprattutto, intersezionale. In questa sede, vi parliamo di un modo per ripensare la crisi climatica attraverso alcune opere celebri e del rapporto reiterato tra giocator* e ambiente nei city builder.
I disegni, come al solito, sono di quella splendida persona di Camilla Fasola, ricordatevi di seguirla. Mettetevi comodi, vi auguriamo buona lettura!
Ambiente e urbanistica, città che evolvono
Ho sempre avuto una fascinazione per i city builder, attratto dalle città, da come sono strutturate e dal loro design. Insomma, il mio cervello in qualche modo doveva giustificare il diploma da geometra che ho preso un po’ per errore, un po’ per piacere e un po’ perché non è che avessi tutta ‘sta grande voglia di impegnarmi. Perfino la mia tesina di maturità è stata influenzata da concetti che ho scoperto proprio durante le mie ore di gioco, dedicandola tutta alle arcologie: strutture utopiche che cercavano di risolvere il problema della sovrappopolazione e dell’impatto ambientale (Architettura + Ecologia).
Scoprii il concetto di Arcologia durante una mia sessione di gioco a SimCity 2013, l’iterazione “maledetta” del famoso franchise di city building game (CBG) sviluppato da Maxis ed edito da EA. L'arcologia, infatti, é inserita come la “meraviglia”, la mega-costruzione realizzabile nella mappa di gioco (definita anche come scenario).
Facciamo però un passo indietro: lo scopo di questo genere di videogiochi è quello di costruire e amministrare una città nascente, vederla evolvere fino a diventare una grande città o una metropoli. Si creano abitazioni, negozi, fabbriche e servizi, ma si sviluppano anche nuove tecnologie, si gestisce la tassazione e tanto altro ancora. Come esperienza è, per me, maledettamente soddisfacente, poiché si riesce a percepire e visualizzare l’impatto del giocatore su un sistema così vasto e complesso come una città: il cambiamento è tangibile e senza l* giocator* ció non avverrebbe. Il gioco ti chiede, attraverso notifiche ed obiettivi, di fare attenzione ai problemi urbani e di risolverli. Lo sguardo verso la città è privilegiato, top-down, e allo stesso tempo impersonale. Nella narrativa del gioco siamo i nuovi sindac*, ma nella realtà dei fatti siamo piú esseri divini, poiché abbiamo potenzialità che ad un qualunque amministrator* non sono concesse se non con processi democratici. Il design dei Tropico, sotto questo punto di vista, va dritto al punto e ti fa vestire i panni di un dittatore nel periodo della guerra fredda.
Lo studioso John Gaber aveva scritto in un suo paper come i videogiochi city builder potessero aiutare le persone e l* student* a pensare in modo olistico, per capire le città come un sistema complesso costituito da parti interconnesse e interdipendenti. Si tratta di un genere di giochi che può risultare utile all’apprendimento, ma non senza un gigantesco approfondimento e uno sguardo critico dei suoi limiti. Per quanto opere del calibro di SimCity o Cities Skyline possano risultare più o meno accurate, si parla di simulazioni, e come tali distorcono e semplificano i sistemi e alcune tematiche sociali e urbanistiche più complesse da comprendere, una visione influenzata indubbiamente dai bias cognitivi dei designer. Un esempio calzante è il come viene semplificato all’estremo, e quasi elogiato in modo distorto, il fenomeno della gentrificazione in SimCity 2013. Come sottolineato saggiamente da Bradley Bereitschaft nel suo paper “Gods of the City? Reflecting on City Building Games as an early introduction to urban system”.
If land values rise and educational requirements are met, households simply upgrade their property by replacing the existing home with a more valuable (and often larger), there is no physical displacement. Gentrification, therefore, may be constructed by the player as a relatively simplistic and benign process, a sentiment not far removed from prevailing neoliberal ideology.
Si tratta di un fenomeno molto complesso e che vede, in estrema sintesi, persone o intere comunità dislocate dalla loro abitazione a causa di un incremento del valore dei terreni, un valore che si alza a seguito di investimenti e “riqualificazioni” in quelle zone. Nel gioco, tutto ciò viene ridotto a un “ti si alza il valore della casa e tu resti lì”, una visione senza dubbio distorta della realtà.
In generale, il rapporto che l* giocator* sviluppa nella sua esperienza di gioco l* porta a desiderare e creare queste gigantesche megalopoli, sfruttando tutto lo spazio possibile con l’obiettivo di tessere una fitta texture di abitazioni e grattacieli. Le dinamiche del gioco stesse spingono ad un continuo colmare un senso di horror vacui, con aumento costante della domanda per l’abitazione, per gli spazi commerciali e le industrie, invece di riconoscere e sviluppare un rapporto di consapevolezza sull’uso dello spazio, comprendendo il vuoto come necessario (o come necessità). In fondo anche nella musica ci sono le pause, nei dialoghi ci sono i silenzi ed io, in effetti, dovrei rimettere a posto la scrivania.
C’è nelle fondamenta, anche in altri generi videoludici, un rapporto di sfruttamento non limitato delle risorse. Ma le conseguenze dove stanno? Per quanto l’esistenza di un meteo dinamico crei un alone di realismo nel breve periodo, per videogiochi che hanno un’ottica di lungo periodo, questo non è sufficiente.
La tematica ambientale ed ecologica trova poco spazio anche nell’approccio alla mobilità, dominata principalmente dall’automobile. Come sottolinea Bereitschaft, una mobilità sostenibile non è spesso considerata, dando preferenza alle auto e quindi alla costruzione di una gigantesca rete di strade, autostrade e, perché no, superstrade, pronte ad essere prontamente dismesse all’occorrenza per rendere fluido il traffico cittadino.
Mi rendo conto che districare il traffico sia un puzzle game di raro coinvolgimento mentale, Mini Motorways di Dinosaur Polo Club è un’esperienza che consiglio a tutt* l* appassionat* di puzzle minimalisti (anche se preferisco di gran lunga la versione con le metropolitane intitolata Mini Metro), ma l’esistenza di una mobilità alternativa in un city builder potrebbe essere un punto di riflessione interessante con cui partire per innovare anche il genere, che altrimenti riconferma sempre strutture urbane già sperimentate.
Quindi in questi scenari di agglomerati urbani iper popolati, un approccio alternativo alla costruzione delle città non esiste, si tende sempre a ricreare città iper capitaliste senza sperimentare nuove gestioni o sistemi. Sarebbe interessante sviluppare e analizzare l’impatto di soluzioni esistenti ma poco utilizzate e fornirebbe utili spunti di approfondimento su queste tematiche, spesso rappresentate attraverso sistemi semplicistici. Un attivismo videoludico sulle tematiche ambientali non può non prendere in considerazione il genere dei CBG.
Sono curioso di approfondire ulteriormente la questione, sempre per giustificare la mia scelta di scuola superiore, e se esistono city builder che affrontano questi sistemi con una degna rappresentazione non esitate a scrivermelo.
Panic Room
Ammettetelo, anche voi durante l’adolescenza avete avuto la fase “estinguiamoci tutt*, l’essere umano è un parassita, qual è il tuo nickname su Netlog?”. Non mentite. Vi vedo, mentre sfoggiate un portachiavi dei Diddle e cercate di non slogarvi il collo tentando di guardare chi vi sta davanti tra un’oscillazione e l’altra del vostro ciuffo piastrato.
Tempi bui.
Non avevamo però tutti i torti: siamo dei parassiti, e come tali finiamo per consumare l’organismo che ci ospita (vabbè, tecnicamente è il sistema capitalista che è parassita, ma entrerei in un discorso decisamente più arzigogolato, quindi prendetemela per buona). Solo che, finita l’adolescenza, ci si rende conto che siamo anche egocentrici come specie. L’unico modo che abbiamo per farci salire il panico di fronte alla (nemmeno più così) lenta crisi climatica è quella di riportare ogni effetto su di noi, altrimenti quasi nemmeno riusciamo a capirla.
La temperatura dei mari si è alzata di 4°, la pesca a strascico sta rovinando i suoli marini, l’inquinamento dei mari sta portando alla morte di milioni di specie, e la posidonia è in regressione OMMIODDIO LA POSIDONIA! Sì, perché la Posidonia è una pianta marina che, da sola, riesce a trattenere una quantità di CO2 fino a cinquanta volte superiore rispetto a quanta non ne riescano a trattenere le foreste tropicali. In poche parole, i veri “polmoni” del pianeta Terra non sono le foreste, ma i mari.
“Regà, dobbiamo pensare agli effetti che la crisi climatica ha sul mare perché ci sta la Posidonia.”
“Sì, assolutamente, però ecco, ci stanno anche interi ecosistemi che stanno sparendo, specie marine che a causa dell’aumento della temperatura dell’acqua se la stanno vedendo particolarmente male.”
“Se muoiono i pesci a noi cambia qualcosa?”
“Beh, no, ma...”
“E allora che importa?! Aspè, però il sushi…”
Siamo egocentrici, al punto tale che riusciamo a far capire che ci sta un problema solo quando facciamo esempi che riguardano noi stessi nel personale.
“La crisi climatica porterà a migrazioni di massa, a guerre per l’acqua potabile – che, tra l’altro, già sono in atto da parecchio – a un aumento del costo del cibo, fino a rendere beni di prima necessità un privilegio riservato a pochi.”
“Ma va lah, che in Africa sono abituati al caldo.”
“Ma in realtà non parlavo dell’Africa ma proprio di…”
“Vai a Pechino a protestare che là inquinano di più!”
Però ecco, anche il parlare di migrazioni di massa, di guerre, di prezzi, è sempre un riportare il discorso su di noi come specie. Ma la verità è che questo pianeta continuerà a esistere anche senza di noi. Troverà il modo di creare sempre nuova vita anche senza Posidonia, senza foreste, con i mari caldi, senza ghiacciai e con temperature che superano i 50°. Anche le plastiche e le sostanze chimiche riversate nell’ambiente per la vita non saranno un problema. Saranno un ostacolo da superare e da contare per la sopravvivenza e l’adattamento, ma poi il mondo continuerà.
Le piante fosforescenti e le giraffe cangianti di Golf Club Wasteland non sono così assurde, dopotutto.
Ma facciamo bene ad avere paura, perché è naturale. Siamo consapevoli che per l’essere umano potrebbe essere la fine, e anche se da una parte va bene così, dall’altra no. In questa esistenza non abbiamo scelto noi di starci, ci si siamo trovat*; il minimo che possiamo fare è cercare di essere gentili tra di noi, di aiutarci a vicenda, di pensare alle sofferenze altrui e di fare in modo di evitarle il più possibile. La cultura dell’individualismo e del “piccolo orticello” che ognuno deve curare senza pensare all* altr* ha iniziato a stancarmi anni e anni fa. Non ci sta nessun orticello, e se c’è ora è in fiamme.
Ecco perché dovremmo davvero entrare nel panico per queste bombe di calore, per il numero esorbitante di cavallette che infestano i campi, per la siccità aggravata dall’assenza di piogge e dalle alte temperature, per le forti alluvioni, per i ghiacciai sempre più precari, per l’estinzione di intere specie, etc…
Vogliamo essere egocentrici e pensare solo a noi, ignorando di non essere in cima a una immaginaria e farlocca catena alimentare, ma parte di un sistema complesso e assolutamente non gerarchico, dove se qualcosa crolla a catena poi crolliamo anche noi? Ok, va bene, però iniziamo a fare il conto alla rovescia.
Qualche giorno fa, un gruppo di attivist* del gruppo inglese Just stop oil ha messo in atto un’azione di disobbedienza e sensibilizzazione, attaccandosi con l’attack alle cornici di alcuni quadri in mostra alla Courtauld Gallery di Londra, così da parlare e gridare la loro paura e preoccupazione nei confronti della crisi climatica – e della mancanza di risposte forti delle istituzioni – di fronte a turist* e alla stampa. Un* di loro però ha detto una frase che mi ha fatto un po’ pensare: “Senza cibo a cosa serve l’arte? Senza acqua a cosa serve l’arte?”.
Da schifosissima persona dedita “all’arte”, mi sono trovata in disaccordo. Cioè, lo capisco, ha dannatamente senso, ma una parte di me fatica a considerare quel messaggio davvero efficace. Ovvio che se ho fame e di risposta qualcuno mi passa una copia di Moby Dick io smatto, ma non riesco pensare che sia un bene di secondaria importanza. Ne sono fisicamente incapace.
E se questa mia risposta fosse una reazione di pancia?
L’arte, per come la percepisco io, è qualcosa che ha una sua potenza intrinseca, capace di definire in me un prima e un dopo, qualcosa capace di fondare un sempre nuovo presente emotivo. Insomma, io non sono la stessa persona che ero prima di leggere il Maestro e Margherita di Bulgakov, e non sono nemmeno la persona che ero prima di vedere Barret guidare gli Avalanche alla distruzione del reattore 1. Sono diversa dalla me che non aveva ancora ascoltato Radio Nostalgia from Mars, e credo di non voler nemmeno pensare alla me che ero prima della lettura della Boutique del mistero di Buzzati. Dannazione, ero una persona diversa anche alla fine di ogni puntata della Melevisione! (Perché sì, era pura arte; non accetto opinioni contrastanti a riguardo.)
Ma se di arte ce n’è così tanta e di crisi climatica si parla di continuo, com’è che con una non si mangia e l’altra non è presa in considerazione?
Se oggi parliamo di clima e di ecosistemi molto più di quanto non si faceva 30 anni fa, non è solo grazie a movimenti ambientalisti, ma anche grazie a forme di ribellione ed espressione artistica. È grazie a documentari, film, allo sviluppo di studi di architettura sostenibile, a performance che mettono al centro l’interdipendenza dell’essere umano con il mondo in cui vive, a racconti e videogiochi che non solo ti fanno immaginare futuri catastrofici, ma che ti fanno vivere la resistenza e la voglia di cambiare le cose. L’intero mondo di Horizon Zero Dawn è frutto di un esito catastrofico per la specie umana, e della sua incredibile testardaggine al non volersi arrendere! Poi, davvero, avete giocato a Final Fantasy VII? Ecco, gli Avalanche erano praticamente degli eco-terroristi! Ed era il 1997!
Eppure sembra quasi che tutto ciò non basti.
Mi pare di non vedere altro che greenwashing, noncuranza, negazionismo, pugni alzati contro l’umidità “che è quella che ti frega”, e titoli di giornali e articoli che dipingono l* attivist* come alieni che non parlano nemmeno la nostra stessa lingua, figuriamoci capire come funziona realmente la società.
Stiamo davvero imparando qualcosa dall’arte? Cosa sta andando storto?
O magari mi sbaglio io. L’arte davvero non basta. Dopotutto, una volta chiuso un libro o spenta una console, quell’immedesimazione, quel gioco di maschere che ci permette di vivere l’empatia, termina. Ciò che rimane è una eco, un qualcosa di troppo debole e monco per farci vedere la realtà da un’altra prospettiva. È troppo facile tornare a relegare ogni strascico a un mondo che non ci appartiene, dal quale siamo distanti e che non ci tocca. Perché forse siamo davvero così tanto egocentric* da vedere anche nelle esperienze altrui, nelle paure altrui, dei mondi di fantasia che possiamo spegnere, che possiamo facilmente fingere di aver compreso e di esserne uscit* miglior* e più consapevoli, per poi aspettare che il tutto svanisca.
No dannazione, non accetto di finire questo articolo così. Per ora l’arte non sembra aver fatto abbastanza? Allora creiamone di più, e incoraggiamo a riflettere su quello che cerca di dirci! Perché con l’arte non solo si mangia, ma si sopravvive a lungo termine.
Siamo dei parassiti che possono vivere in armonia con ciò che ci circonda, ne sono certa. E se in un futuro così utopico alcune cose non avranno più senso di esistere, come Netlog, allora tant’è, ci creeremo uno spazio nuovo, con Blackjack e glitter di lusso.
Questa intervista merita attenzione
Frostpunk, l’inferno di ghiaccio
“Secondo te, sarebbe meglio un collasso climatico volto al calore estremo, o al più totale gelo?”
Avete presente quella risata che ancora non è totalmente isterica, ma ci si avvicina con triste consapevolezza? Ecco. Perché è buffo realizzare di starsi ponendo le stesse domande apocalittiche che ci si faceva da bambini, ma con un velo di serietà. Frostpunk è uno di quei giochi che prova ad aiutarci a trovare una risposta.
Ci sono solo ghiaccio, freddo, rumori ovattati intorno a voi. La giornata inizia, e per prima cosa dovete scegliere i turni di lavoro, a chi dare o meno cibo, per chi usare le risorse e chi guardare morire. C’è poco da fare, se non vivere questo ultimo spasmo di energia prima del silenzio, pensando a tutto ciò che è stato abbandonato, sprecato, non considerato.
Frostpunk però non è un semplice gestionale. Arrivat* alla fine della civiltà, sul fondo del baratro che l’essere umano si è scavato, siamo costrett* a prendere coscienza di quanto possano essere svuotati di ogni valore i principi umani.
Sviluppator*: 11 bit studios
Disponibile su: PC, Playstation 4, Xbox One, Android, Mac
Prezzo: € 29,99 - € 34,99
Durata: 10 ore
“Inclusività nell’indie gaming italiano” di Monica Magnani. La rivista online Stay Nerd ha pubblicato un estratto della tesi di Laurea Magistrale di Monica Magnani, laureata in Comunicazione per l’impresa, i media e le organizzazioni complesse presso l’Università Cattolica di Milano. Nella tesi viene fatta una panoramica sulle rappresentazioni di genere e le minoranze nel panorama videoludico indie della penisola.
“Ron Gilbert, Monkey Island e il mondo all’ingiù” di Pietro Iacullo. In questo editoriale pubblicato sulla storica rivista The Games Machine, Pietro Iacullo parla della shitstorm subita dal creatore di Monkey Island Ron Gilbert e della tossicità di cui è capace la community dell* videogiocator*.
“Dark Souls has always been queer” di Matteo Lupetti. Su Metro.co.uk, Matteo Lupetti analizza la serie dei souls di From Software da una prospettiva queer e transfemminista, prendendo anche in considerazione la celebre versione demake PS1 di Bloodborne realizzata da Lilith Walther.
Nelle puntate precedenti…
E così, un altro mese dell’epoca umana è passato. Potremmo concludere la newsletter con qualche piccolo cliché, del tipo “il tempo sistema ogni cosa”, “la Storia serve per evitare di ripetere gli errori del passato, ma l’essere umano sembra non imparare mai”, o ancora “questa estate è decisamente un soulslike: non è difficile, è che è punitiva”. Cose così.
Che poi, voi la vita la paragonereste più a un soulslike, a un roguelike, o a un metroidvania? Non diteci “gestionale” perché qui tutto pare fuorché gestibile. Anche se sarebbe bello: se fai A succede B, ma tieni anche d’occhio C. Lineare, semplice, comprensibile. Sarebbe un ennesimo cliché chiudere dicendo che però finiremmo per stufarci dopo poche ore di gioco? Evvabbè.
Puntata con un sacco di spunti interessanti su un tema complesso e a volte overwhelming. Un gestionale a turni che ha provato a introdurre eventi ambientali e risorse consumabili è Civilization 6 con il DLC Gathering Storm, ma riguarda più la branchia dei gestionali strategici sulle civiltà. Tentativo lodevole, nonostante lo sbilanciamento e il costo esorbitante di 39,99 euri (Maledetti quelli di 2K che overprezzano delle palesi patch ma vabbè). Concordo con Ilaria sull'argomento "Arte a servizio della questione climatica" e mi sembra assurda l'argomentazione degli attivisti, la quale purtroppo è sintomo di un problema ancora più ampio: come l'arte viene recepita dalla persona media. Infine come dimenticare Frostpunk, consigliatissimo anche per i neofiti del genere.