Giugno col bene che ti voglio
Ah no era "luglio", vabbè troviamo un'altra intro. Dai che ce la si fa!
Ed eccoci qui! Tornati dalle nostre ceneri come la possente fenice che si libra… no aspè. Forse è troppo.
Redivivi che si ergono… meeeh.
EROI DI UN MONDO NUOV… eccheccazzo.
Vabbè, dopo una pausa lunga giusto il tempo per farci passare un attacco di panico e per dare il tempo agli altri 18 che stavano in coda di arrivare in modo ordinato e civile, siamo tornat*! Eccoci qui con la nuova puntata di Still Alive, che è venuta un po’ più strana del solito. Che già vengono tutte strane, ma questa proprio ci si è impegnata.
Siamo a giugno, il mese del Pride e, tra una brainstorming e l’altro, ci è venuto in mente di trattare la tematica insieme al concetto di “fobia, paura e ansia”. Perché il Pride per alcun* può significare proprio questo: rivendicare il proprio orgoglio, anche se si ha paura e ansia; forse proprio perché ancora, purtroppo, si hanno molti motivi per averle.
A rivedere i pezzi a posteriori, però, sembra quasi che il concetto che più di tutti sia emerso è quello di “comunità”.
Un sistema dove l’individuo si estende agli altri, agisce per il benessere altrui, e dove anche questa collettività opera per l’individuo stesso. Un flusso di sostegno, di cooperazione.
Sembra utopico, vero?
Eppure, il mese del Pride ci ricorda che il concetto di comunità è possibile, funziona ed è meravigliosamente difficile da sradicare.
The first pride was a riot.
Per tutti quelli che hanno reso possibile fare coming out, per tutti quelli che lo hanno fatto e per tutti quelli che ancora non possono.
—
A questo giro la nostra Matilde Ulivi è da ringraziare doppiamente perché non solo si è accollata la lettura e la correzione di tutta la newsletter, ma ha anche scritto la parte dedicata all’indie.
E, come sempre, grazie alla meravigliosa Camilla Fasola per i disegni, che come noi RIEMERGONO DALLE CENERI ah no aspè…
L’immagine di copertina viene da Unsplash, ed è di Brian Kyed.
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Che in realtà Zona Warpa è terminato.
Qui però vi lasciamo non solo il link per il sito, e anche il canale telegram, dove potete recuperare i vari link con le registrazioni delle presentazioni.
Teatro delle ombre
7 minuti di lettura
A me il solo pensiero che voi leggiate queste righe provoca un terrore che a stento riesco a descrivere. Non perché questo articoletto sarà più personale, più delicato, più complesso di altri, ma semplicemente perché l’ho scritto io. Ogni volta che pubblico qualcosa a me sale il panico. Ma che dico… Io inizio ad avere le pulsioni di pianto già una settimana prima.
Scrivere è una cosa che proprio non mi fa stare bene. Chissà perché poi. Anzi, mannaggia a me, lo so il perché: mi fate paura.
Aspettate, giuro, non è come sembra. Non siete voi, sono io.
Sarà perché a ogni piccolo successo scolastico da bambina la prima reazione dei miei era “e gli altri che hanno preso?”, sarà che ho lottato per oltre due anni con un relatore che rispondeva alle mie bozze di tesi con dei secchi “no” o con delle telefonate in cui mi dava dell’analfabeta perché avevo dimenticato i punti fermi alla fine delle note a piè di pagina e che, probabilmente, nemmeno si ricorda più di me mentre io ho le lacrime agli occhi e la tachicardia quando in libreria vedo un libro con sopra il suo nome. Sarà che dopo oltre quattro anni di terapia con uno psicologo – contattato nel cuore della notte con un messaggio che iniziava con “Salve, mi perdoni se la disturbo” e terminava con un “credo di essere arrivata al mio limite e ho bisogno di aiuto, la prego mi risponda appena può sono esausta” (questo voleva essere un aneddoto comico ma ora rileggendolo mi pare davvero tragico. Ah, che ridere la depressione, cazzo) – e quasi due con una psichiatra finisco sempre per fare gli stessi errori, solo che adesso sono più conscia del perché. Sarà che ogni volta che provo a dire qualcosa di serio e di costruito finisco per chiudermi in un mutismo in cui annaspo cercando di non affogare, o scrivo paragrafi di supercazzole con uno stile estremamente colloquiale e pieno di espressioni dialettali che non mi appartengono.
Fatto sta che a me scrivere viene schifosamente difficile.
Ecco, qui la domanda viene spontanea: perché lo faccio?
Cioè, non che io scriva trattati di 200.000 parole ogni giorno. Insomma, a stento riesco a fare ‘sta cosa che sto facendo ora. Ma la domanda rimane: perché?
C’è un articolo, tra i tanti che marciscono nella cartella “stuff” del mio desktop, sul videogioco Shady part of me. Voleva essere un articolo particolare: un po’ analisi, un po’ biografia, e un po’ (tanto) dialogo teatrale, un po’ racconto dell’assurdo. Un disastro annunciato.
Shady part of me è un gioco strano. La protagonista sembra una bambina, rinchiusa in quello che sembra a volte un ospedale psichiatrico e a volte un orfanotrofio. Ma l’ambiente piano piano cambia. Segue i ricordi, i traumi (forse), e le paure. Intorno a lei gli oggetti si trasformano, si incastrano, si muovono e prendono vita come se fosse in un mondo ricco di pericoli che da adulti appaiono innocui: rumori, piccole altezze, scatole pesanti da spostare e passerelle che creano lunghi corridoi. Il tutto illuminato da una luce caravaggesca (avete presente i dipinti di quel buon caro vecchio mattacchione di Caravaggio, sì? Tutti bui, dove però c’è sempre una fonte di luce che arriva da non si sa dove e sarebbe la metafora della luce divina perché Caravaggio faceva ‘sti dipinti per ingraziarsi i Signori così che mettessero una buona parola per lui e lo aiutassero a scamparla dall’ennesima accusa di omicidio e/o rissa e/o pestaggio, sì? Ecco…) che però bisogna evitare. La bambina, infatti, ha paura della luce. O meglio, ha paura di ciò che la luce provoca: se ci finisce dentro, viene vista; e se viene vista viene giudicata. Ecco che allora a potersi muovere negli spazi di luce lungo le pareti c’è la sua ombra. Shady part of me è infatti un puzzle game, e la meccanica di gioco passa dal 3D, dove guidate la bambina, a una grafica 2D, dove invece impersonate la sua ombra.
Ecco, c’è differenza però tra il mondo che vive la protagonista e quello della sua ombra: tutti quei pericoli ovattati, tutti quegli ostacoli banali e quelle figure di cartapesta, lasciano come ombre rovi pungenti, draghi dai denti acuminati, massi giganteschi che possono schiacciarti e muri di chiaroscuro che con un lieve movimento ti schiacciano contro una parete d’ombra.
Mentre voi due cercate di raccapezzarvi in questo caos, mentre in un modo o nell’altro la bambina cerca di dialogare con questa sua ombra, cerca di farci amicizia, una voce prova a intrufolarsi, a guidarla nei ragionamenti, a portarla a comprendersi.
Insomma, senza girarci troppo attorno: la bambina non è altro che l’inconscio di una donna in terapia. È la sua “bambina interiore”, che cerca di metabolizzare un’infanzia dolorosa, abusi subiti, e il giudizio altrui. Ma la bimba non si trova mai veramente in pericolo, perché quei momenti sono ora sono passati. A rischiare la vita ora è la sua ombra, la lei di adesso; la lei che non è altro che la scia, la creatura incorporea di tutto quel dolore. La voce, ovviamente, è lo psichiatra che le parla durante la seduta.
Aspe’, dov’è che volevo arrivare con questo discorso? Che forse io provo a tentoni a scrivere e a espormi al giudizio altrui perché sono in realtà stanca di sentirmi così. Sono stanca di provare fatica e dolore nell’esprimermi; sono stanca di preferire il silenzio.
Il problema è che da sola dal silenzio non mi ci levo, ma ho bisogno di Matilde che mi tira i calci in culo per rispettare le scadenze e delle chiamate notturne con Damiano. Ma ho bisogno anche di voi che continuate - testard* e con poco istinto di sopravvivenza, a quanto pare - a leggermi, perché in questo caso il contrario di silenzio è condivisione (Umberto Eco stacce).
A questo mondo nessun* si salva da sol* (e mannaggia alla Mazzantini che ha scritta prima lei ‘sta frase ma come fa a piacervi come scrittrice non lo capirò mai!).
Splash
7 minuti di lettura
Non sono un grande fan del mare. Certo, ci sono andato spesso e per carità, una nuotata, lo spritz, le racchettate sulla spiaggia e una partita a schiaccia cinque (o anche tre o sette, dipende dai partecipanti) si fa più che volentieri. Ma non sono mai stato una di quelle persone che al mare sente il bisogno di andare ogni anno.
In linea generale va tutto bene fino a quando i miei piedi toccano un fondale, e quel fondale riesco a vederlo bene. Questo perché il mare per me rimane un grande mistero, e qualche volta penso a cosa si cela nelle sue profondità. Con un certo fascino, si intende. Ma anche con una sana dose di inquietudine. Tale sensazione è stata resa ancora più forte dalla mia esperienza con Subnautica.
Un gioco affascinante su diversi fronti, e in cui possiamo peraltro utilizzare la parola “immersivo” con cognizione di causa. Subnautica ti catapulta su un pianeta completamente marino, l’astronave è in avaria e i giocatori devono sopravvivere raccogliendo risorse e costruendo il proprio rifugio: un survival molto classico, ma che declina il suo lato esplorativo in questa cornice marina. I vividi colori dei fondali trasmettono immediatamente un senso di pace ed estasi che pochi giochi sono in grado di emulare. Anche la catalogazione della fauna - e la scoperta delle specie marine native del pianeta - è un’attività maledettamente appagante.
Pensate: è un’esperienza così travolgente da aver indirizzato un mio caro amico verso la biologia marina. Da quando ha scoperto questo gioco, lui sogna di diventare biologo marino. E io glielo auguro, perché ho visto quella scintilla illuminare i suoi occhi. Quella stessa scintilla che prende ognuno di noi quando scopriamo cosa vogliamo fare nella nostra vita.
Al quinto anno di liceo, dopo l’esame, ti viene sempre chiesto che cosa desideri fare dopo. E io mi ricordo di quando, discutendo la sua tesina di maturità, disse alla commissione d’esame - giustamente incuriosita - che un videogioco lo aveva spinto a provare quella strada. Insomma, sempre meglio del sottoscritto che ha fatto una tesina sulle arcologie e il socialismo utopistico con indosso una maglietta di Capitan America. Per la serie “lo stile non va a pile” e tante altre cose che posso dirvi sulla moda senza guardare Wikipedia.
Fu proprio questo mio amico a parlarmi di Subnautica, se non erro me lo regalò anche. E giocai per diverso tempo, anche se il genere survival non fa esattamente al caso mio. E fu proprio in quelle ore di gioco che capii che i fondali marini sì mi affascinavano, ma allo stesso tempo mi inquietavano. Ricordo che in diverse sezioni di gameplay, il mio personaggio si trovava a nuotare in punti in cui il fondale è profondissimo, oppure non c’è. Ed è in quel frammento nebuloso di oceano che comparve per la prima volta il Reaper Leviatano: questa creatura mezzo serpente marino mezzo porca vacca che paura, che in poco tempo mi si è avventato contro. Compariva dal nulla, il più delle volte.
Si chiama talassofobia. La paura del mare, delle profondità del mare. Ma non credo di essere talassofobico. Primo perché mi manca una diagnosi, e secondo perché il mio livello di stress in queste situazioni non mi impedisce di agire.
Come forse avrete già letto: recentemente Horizon Forbidden West ha aggiunto la modalità per persone che soffrono di talassofobia. In queste settimane mi sono consultato con alcune psicologhe e psicoterapeute, per la scrittura di questo pezzo. Loro erano chiaramente già a conoscenza di queste modalità, poiché sono psicologhe molto attive in ambito gaming e digitale. Ed erano entusiaste di queste aggiunte. Il perché è presto spiegato. Alcune persone fobiche, con diagnosi, trovano stressante anche solo vedere l’oggetto della fobia. Anche solo in schermo, finto. E questo può allontanare dal videogioco, che dalla sua nascita insegue il fotorealismo come Willy il Coyote cerca Beep Beep.
Ricordo di un amico aracnofobico che, quando doveva affrontare dei ragni nelle cripte di Skyrim, giocava a occhi chiusi, o comunque distogliendo lo sguardo dallo schermo. Se penso che una sola impostazione di accessibilità avrebbe potuto farlo giocare in serenità, beh penso che forse dei passi avanti li stiamo muovendo. Timidi passi avanti, ma pur sempre tali.
Poi ovvio che le aziende non lo fanno solo perché mostrano sensibilità, ma anche per la pecunia. Che ricordiamo, non olet (ma adesso basta citare i latini). Ma in fondo l’importante è che se ne rendano conto e che agiscano, ma questo è un discorso più ampio. Sarà per la prossima volta.
Non sono ver* amic* se non ti consigliano indie
Neurodeck: non chiedeteci di essere coraggios*
In Neurodeck siamo solo noi, niente creature magnifiche, magh* o guerrier*. Un gioco di carte che tra fobie, paure, ansie e strategie di sopravvivenza di ogni giorno offre interessanti spunti di riflessione.
Un roguelite che ci mette davanti a continue scelte sulle nostre caratteristiche, sui meccanismi di coping (le abitudini e i gesti che utilizziamo per far fronte a situazioni difficili o di disagio) e sulle paure che affronteremo. Inoltre il gioco viene arricchito da flussi di coscienza, racconti onirici e piccoli attimi quotidiani che accompagnano la scelta delle carte per il proprio mazzo. Sia chiaro, ha molti punti deboli: bug che inficiano nella riuscita o meno della partita, nonché alcune approssimazioni psicologiche abbastanza discutibili. Ma nonostante queste spigolosità, Neurodeck ha qualcosa da aggiungere al dibattito. O quanto meno, ha qualcosa da aggiungere nel mio dibattito interiore.
Ci sono diverse interpretazioni sulla differenza tra ansia e paura, numerose delle quali dissentono su alcuni punti, specificando che alle volte queste due emozioni si sovrappongono. In generale però si definisce paura quell’emozione che nasce come reazione a un pericolo che percepiamo sul momento, e che scatena in noi la famosa risposta “fight or flight”. Per chi ha giocato a Pokémon, lo scegliere tra Fune di Fuga e Attacco Rapido. L’ansia è invece la reazione a un rischio percepito nel futuro, qualcosa di lento e inesorabile.
Questo mi ha fatto riflettere sul fatto che la retorica che vede il coraggio come fattore determinante per avere successo mi ha stancata, perché se non ci sei riuscit* non sei abbastanza coraggios*, non sei un* ver* guerrier*. Perché anche se è vero che “non è coraggios* chi non ha paura, ma chi questa paura la affronta”, è necessario tenere di conto di quante volte ci si trova constrett* a farlo.
Ognuno di noi deve cautamente entrare in questo mondo come altri hanno deciso che sia giusto farlo, senza fare troppo rumore, ma nemmeno troppo poco o manca di iniziativa. Deve mostrare le proprie emozioni, ma non eccessivamente, altrimenti è poco razionale. Deve godersi la vita, ma senza esagerare; altrimenti è spudorat* o pigr*.
Uno dei flussi di coscienza presentati in Neurodeck, ci parla della playlist che noi, nei panni di uno dei personaggi, ascoltiamo durante la giornata: un mixtape composto da “la roba più hardcore e trash che si possa trovare”. Ciò che mi è rimasto più impresso di questo flusso di coscienza è che si concentra a far notare come nessun* sarebbe in grado di associare a noi quel gusto musicale, e di come questo sia il risultato di una nostra scelta. Noi non vogliamo che gl* altr* sappiano cosa ascoltiamo, non vogliamo che ci giudichino per questo.
Definire e scoprire noi stess* è già una battaglia, contro le nostre contraddizioni e i preconcetti che inevitabilmente incontriamo lungo tutto il percorso. Poi ci sono quei piccoli e grandi scontri che dobbiamo affrontare per rimanere noi stess* nonostante le discriminazioni. Quindi ogni volta che negli anni si presenta una situazione nuova prima arriva l’ansia e poi la paura. Perché ci ricordiamo, volendolo oppure no, di tutte le volte che abbiamo dovuto prendere coraggio - a una, due mani o da lancio dipende dallo stile di combattimento - e di quante volte non è andata bene. Per questo gli sforzi che ad alcun* appaiono piccoli possono risultare immensi per altr*: probabilmente hanno finito gli MP.
Sono dieci anni che non prendo in mano la penna. Come un oggetto così piccolo è diventato così pesante? Mi tremano le mani e il cuore batte prepotentemente nel mio petto mentre scrivo. Non posso tenere i piedi nelle ciabatte, devo sentire il contatto col suolo il più direttamente possibile per rimanerci attaccata, per rimanere seduta. Ho paura.
Ogni volta che sento di voler esprimere la mia bisessualità, mi ricordo di tutte le volte che sono stata messa in dubbio o screditata. Ogni volta che ci sono momenti di convivialità e voglio godermeli con i miei partner, mi ricordo di tutti i ponti che sono stati tagliati. Ogni volta che devo incontrare qualcuno che mi ha parlato e non mi ha mai vista, ricordo tutte le frasi, i gesti e gli sguardi violenti che ho subito sul mio corpo cicciottello.
E il corpo non dimentica. Ci sono momenti in cui può solo rifugiarsi nei meccanismi più diversi per riuscire a continuare a funzionare, senza per il momento avventurarsi in nuove situazioni.
Mi prendo un egocentrico momento per ringraziare tutte quelle mani che hanno sostenuto la mia finché non sono stata in grado di scrivere questo pezzo, per primi Damiano e Ilaria che creando questo spazio e credendo nelle mie obiezioni di tutti i mesi mi hanno spinto a prendere un po’ di voce.
Certe volte il coraggio è in realtà il risultato di un collettivo atto di supporto.
Sviluppator*: TavroxGames
Disponibile su: Nintendo Switch, Microsoft Windows, Linux, MacOs
Prezzo: €11,99
Durata: 5 ore
di Matilde “JustNicta” Ulivi
Collegh* fanno cose
Massimiliano Di Marco scrive su Insert Coin un report sulle condizioni di lavoro nel doppiaggio dei videogiochi;
Simone Barbieri su Videogiochitalia affronta invece la tematica dello schwa nella localizzazione, sui casi studio e sugli esempi virtuosi, accompagnando il tutto con le dichiarazioni di espert* del settore;
Sul blog di Dark Education si parla invece del ruolo della paura nell’educazione, con un articolo dedicato al videogioco Bramble;
Fabrizia Malgeri sul suo blog Una stanza (dei giochi) tutta per sé scrive infine un pezzo sulla libertà nei videogiochi, partendo proprio da The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom ed espandendo il discorso al panorama contemporaneo.
Vi consigliamo un evento da recuperare
Addio, addio…
Siamo nuovamente qui, finalmente. Scusate per l’assenza, ma abbiamo dovuto mettere in ordine alcune cose nella nostra vita. Dovevamo capire cosa volessimo da questo spazio e come organizzarlo al meglio in vista dei nuovi impegni.
Come si suol dire “tutto a posto e niente in ordine”, era un po’ il nostro caso. Ma questo spazio - anche se lo diciamo spesso - cambierà impostazione, vogliamo sperimentare. Oggi più che mai sentiamo la necessità di intraprendere nuove vie nella comunicazione e utilizzare anche tutti gli strumenti che Substack rende disponibili. Questa piattaforma offre tantissime cose e manca il tempo di mettersi a smanettare un po’.
Detto questo, speriamo che la puntata di questo mese sia piaciuta, e vi invitiamo a mandarci critiche, battute e altri feedback che possono aiutare a migliorare il nostro lavoro. E non dimentichiamolo, è stato anche l’esordio della nostra collega Matilde, che dal giorno zero della newsletter la revisiona e controlla sia tutto a posto. Siamo felici di vedere un suo testo assieme ai nostri e speriamo - ovviamente - di vederne altri.
Prima di salutarci e di darci appuntamento al prossimo mese, è importante ricordare che abbiamo un canale Telegram. E che potete seguirci anche sui nostri social. Qui trovate Ilaria, mentre Damiano è qui.
Ben tornati!
Sono molto curioso di scoprire che cosa avete in mente :)