Intervista a Marco Spelgatti e Mattia Belletti di owof games
non-binary, open source e Game Jam
Il caldo estivo sta mettendo a dura prova la voglia di fare di qualunque essere umano. Sentiamo tutt* un’incredibile necessità di sdraiarci all’ombra e rimanere idratati. Questa intervista arriva proprio al momento giusto, così potete sorseggiare qualcosa di fresco e leggere la nostra chiacchierata con Marco e Mattia, sviluppator* di non-binary e fondator* di owof games.
Abbiamo avuto la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con loro sul gioco, ma anche su alcune loro scelte di design, sulla filosofia open-source e sul linguaggio di programmazione che hanno utilizzato per realizzare non-binary.
Vi auguriamo buona lettura, qui di seguito potete trovare l’indice degli argomenti per navigare nell’intervista in modo più agevole. Ricordiamo che non-binary è disponibile gratuitamente su Itch.io e Steam.
Indice
Presentazione
non-binary, un dialogo sulla Game Jam
Siamo forme geometriche
Nel bullet hell si deve schivare
Il finale, con spoiler
Ink e lo sviluppo di non-binary
Open-source
Da Itch.io a Steam
1. Presentazione
Ilaria: Partiamo con una domanda abbastanza standard: chi siete? Presentatevi!
Mattia: io sono Mattia, mi occupo principalmente della parte di programmazione e game design in owof, ho una formazione scientifica e tecnica, e vengo dall’esperienza della Gilda, che è il laboratorio ludico del Cassero LGBTI+ center di Bologna, che è anche il luogo in cui, con Marco, abbiamo iniziato a ragionare di giochi e di questioni queer collegate, e… that’s so!
Marco: [ride] ok, la parte di game design è la parte che abbiamo in comune ed è la cosa che stiamo esplorando di più. Quello che porto magari rispetto a Mattia è l’aspetto narrativo, perché scrivo da quando ero piccolinə. Anche io come Mattia ho collaborato con la Gilda, quindi riguardo l’aspetto di costruzione del gioco ne abbiamo parlato soprattutto lì, e soprattutto abbiamo imparato a condividere l’agency narrativa, che è una cosa che scrivendo storie è meno ovvia, perché la scrittura è un processo spesso solitario, invece mettersi al tavolo e condividere con le altre persone la narrazione è una cosa molto bella, e ha aiutato anche a capire come gestire la parte di game design e di testi per Non-binary perché è già un atto di cessione di volontà ad altre persone, invece di voler controllare tutto.
Damiano: Cosa intendi con condivisione dell’agency narrativa?
Marco: tutti i giochi che alla fine ho fatto non hanno master, o comunque hanno un master molto “piccolo”.
Mattia: forse è meglio se diciamo che ci siamo occupati principalmente di giochi di ruolo in Gilda, quindi era riferito a quello.
Marco: sì, mancava una info non indifferente! [ride] sì, nell’atto pratico tutte le persone al tavolo possono agire sulla narrazione.
Damiano: come Stonewall 1969, per intenderci?
Marco: sì!
Mattia: che, tra l’altro, infatti abbiamo portato in giro in parecchi posti, da Firenze fino su a Bolzano. Ci siamo fatt* un bel po’ di giri con quel gioco.
Damiano: Io e Ilaria abbiamo giocato una partita assieme a Stefano Burchi (n.d.r. autore di Stonewall 1969) e ne siamo rimasti folgorati, è davvero un gran gioco!
Marco: beh, se vi capita un pomeriggio a Bologna e volete soffrire, siamo qua!
Ilaria: assolutamente sì!
2. non-binary, un dialogo sulla Game Jam
Ilaria: sempre nell’ottica di presentazione; noi vi abbiamo conosciut* con non-binary e ce ne siamo innamorat*. Ce ne parlate un po’?
Mattia: io faccio un’introduzione e tu Marco aggiungi cose quando noti. [Marco annuisce, ridendo] Non-binary è nato durante la Global Game Jam di quest’anno, che è la jam più grande che c’è al momento, dal chapter bolognese. Il tema di quest’anno era “dualità”. È stata una cosa buffa, perché io e Marco non eravamo assieme quando è uscito il tema, e abbiamo detto “dai, ragioniamoci poi assieme, ne parliamo poi assieme su cosa vogliamo fare”, e invece siamo arrivat* che avevamo già la stessa idea, ovvero parlare di come rompere la dualità, di come le questioni di genere non sono binarie, duali, come si dice. Abbiamo quindi costruito un primo prototipo durante la game jam, abbiamo fatto un primo brainstorming tirando fuori una prima versione. Il risultato è piaciuto a noi e anche a varie persone che lo avevano provato durante la game jam, e abbiamo pensato che poteva essere esattamente quel genere di progetti che volevamo portare avanti con owof: parlava alle persone a cui volevamo parlare e nel modo in cui ne volevamo parlare, quindi abbiamo deciso di andare avanti e cercare di fare una tirata e di avere una versione completa, e quindi di uscire dalla versione di prototipo. Da lì ci siamo lanciat*, anche assieme ad Ascari che ha scritto le musiche e ci ha aiutat* per la parte di costruzione della storia; abbiamo cercato di fare una costruzione più condivisa della storia tra tutti i membri del team e non dividerci strettamente i ruoli. Così, dopo tre mesi di lavoro folle e disperato, siamo arrivat* fuori con la prima versione.
Marco: una cosa carina e molto interessante è che Ascari ci ha anche aiutat* molto a capire qual è il processo di costruzione di femminilità, come ha vissuto determinate pressioni. È stato molto bella una chiacchierata che abbiamo fatto io e lei via webcam, dove ha cominciato a raccontare cose a ruota per cercare di farmi capire poi quale fosse l’essenza da portare all’interno dei testi. È stato molto molto bello perché, per la prima volta, ho messo a disposizione le competenze che avevo per narrare l’esperienza di qualcun altr*. Senza Ascari non ci sarebbe stata Pallina, che ha la solidità che spero abbia proprio perché Ascari – e altre persone Afab (n.d.r. Assigned Female at Birth, ovvero persona assegnata femmina alla nascita) – ha portato quelle esperienze. È stato un momento davvero molto bello.
Damiano: Avete effettuato delle interviste durante la produzione del gioco?
Mattia: ci sono state varie interviste a varie altre persone non binarie, abbiamo chiesto un po’ a persone che conoscevamo e fatto un po’ di chiamate in giro. Marco è la persona che si è preoccupata principalmente di parlare, cercare di prendere queste esperienze e portarle dentro le storie. Già dalla demo sapevamo che ci servivano per forza due storie diverse, e queste interviste hanno rafforzato l’idea:non si può raccontare davvero l’esperienza delle persone non binarie partendo da una sola prospettiva, visto che sono molto diverse le esperienze che hanno in società a seconda del genere che è stato loro assegnato alla nascita.
Damiano: Quante ne avete realizzate, se posso chiedere?
Marco: complete sono state sei, più interventi spot, cioè persone con cui abbiamo parlato per prendere elementi più piccoli. Poi c’è da dire che effettivamente “barando”, anche per questioni personali, è una conversazione che va avanti da almeno due anni con persone non binarie, quindi in un certo senso le persone sono state molte di più.
Ilaria: quindi c’è stata la prima piccola versione realizzata per la Global game Jam, e poi siete andat* a svilupparla ulteriormente. All’interno della Global Game Jam, dato che il tempo è pochissimo, come avviene il processo creativo? Come siete arrivat* al primo scheletro del gioco?
Mattia: terrore e disperazione! [ride] Marco vuoi raccontare tu com’è andata?
Marco: sicuramente una cosa che abbiamo messo subito sul tavolo era il fatto che non avevamo competenze grafiche. Cioè, dovevamo arrivare – dopo due ore, da venerdì sera – con un concept abbastanza chiaro, quindi in realtà è difficile spiegare com’è stata quella conversazione perché è stata il caos: cucinavamo mentre le cose emergevano e così via. Però ecco, è partita appunto l’idea che avevamo, sapevamo che non potevamo fare qualcosa di graficamente complesso, quindi abbiamo iniziato a chiederci anche con i pochi elementi che avevamo a disposizione che cosa poteva narrare, come potevamo narrare qualcosa con le figure; se non ricordo male, Mattia, le figure sono venute fuori come idea più o meno subito [Mattia annuisce]. E da lì è stato un flusso: avevamo un’idea, Ascari era fuori a portare il cane, Ascari tornava, noi ci colleghiamo, riportiamo le cose e così via.
Damiano: perché eravate in remoto?
Marco: purtroppo sì, eravamo ancora alla terza, quinta, decima ondata.
Mattia: io e Marco eravamo assieme a casa mia, Ascari invece era in un altro punto, quindi per noi era stato un mix per noi.
Damiano: Avete partecipato ad altre Jam in passato?
Mattia: no, era la prima Global Game Jam che facevamo, e altre game jam a cui abbiamo partecipato erano tutte online, quindi ancora dobbiamo riuscire a fare una Global Game Jam dal vivo
Marco: c’è comunque da dire che Mario Di Bernardo, che è la persona che ha gestito la cellula bolognese, ha avuto la capacità attraverso Discord di stimolare comunque un senso di presenza; c’erano vari piccoli appuntamenti per chiacchierare, faceva domande, ha cercato di rendere minore la distanza al punto che, per esempio, quando io e Mattia siamo arrivat* a decidere di fare questa cosa io ho detto “Mattia – dato che sono molto timid* – non deve esserci nessuno con noi, facciamo da sol*”, poi Mario ha creato questa situazione molto positiva, Ascari ha fatto un commento citando Ranma ½ che ci ha fatto subito dire “mh, andiamo sulla stessa strada!”.
Mattia: citazione che è finita anche nel gioco quella di Ranma!
Ilaria: ecco, infatti!
Damiano: oddio, non l’ho colta!
Mattia: eh, a un certo punto un personaggio ha dietro con sé un volumetto di Ranma ½ e se lo vorrebbe leggere.
Marco: poi è forse una questione d’età in questo caso.
Ilaria: sì, è piccolino Damiano.
Damiano: il ‘98 è un grande anno perché, ad esempio, sono nato io
[ridiamo tutt*]
Mattia: ma in realtà siamo noi che ci stiamo dando delle vecchie, quindi non preoccuparti! Comunque sì, dopo il brainstorming iniziale è stato molto poi un lavoro in parallelo: eravamo assieme e abbiamo cercato di trovare un modo per strutturare il progetto in modo che potessimo andare avanti sempre in parallelo econ costanza. Marco si stava occupando della stesura dei testi, ci confrontavamo sui dubbi, io li integravo nella parte di programma, e intanto magari faceva un’intervista, parlava con Ascari, io stavo lì con un orecchio e ascoltavo mentre programmavo. É stato un flusso continuo, per arrivare poi a un punto entro la deadline. E non so neanche come ce l’abbiamo fatta ad arrivare alla deadline con quello che avevamo in mente, però in qualche modo siamo arrivat* in fondo [ride].
Marco: Penso sia lo standard in ogni situazione di programmazione: dovevamo fare la consegna alle 16, alle 15:30 sono partite parole non ripetibili da Mattia perché è saltata tipo metà della roba [ridono entramb*].
Ilaria: quei bellissimi momenti di relax dell’ultimo minuto, quando tutto fila liscio!
Mattia: bellissima la game jam, però per fortuna che mi ero preso un giorno di ferie prima e dopo, altrimenti…
3. Siamo forme geometriche
Ilaria: io sono stata incredibilmente colpita dal fatto che ci fossero solo forme geometriche di base, capaci però di raccontare tantissimo. In una situazione di estrema semplicità – grafica, in questo caso – riuscivo a immaginarmi tutto, che è una cosa che con il videogioco raramente funziona, è più una cosa che ti capita con i libri. Tu ricevi degli input semplici, e poi sta a te colmare con l’immaginazione le lacune, dare forma al tutto. La scelta di utilizzare queste forme geometriche è stata dettata esclusivamente da una questione pratica – sia perché non avevate materialmente tempo, sia perché avevate messo subito in conto di non essere in grado di creare qualcosa di graficamente complesso – oppure vi siete proprio dett* che, con delle forme base, con delle forme così “impersonali”, l’immedesimazione sarebbe stata, quasi paradossalmente, più efficace?
Marco: in fase di global game jam è stata un’intuizione che ha funzionato dall’inizio. In fase di costruzione del gioco è stato un caricare di significati quelle cose. Abbiamo iniziato a pensare a modi per far sì che meccaniche, testi e grafiche si alimentassero a vicenda.
Mattia: forse c’è anche un’altra cosa che possiamo aggiungere e di cui abbiamo discusso spesso, e cioè che, secondo noi, le restrizioni spesso aiutano la creatività. Ce ne siamo resi conto giocando molto di ruolo che spesso trovandoci di fronte magari a giochi che apparentemente davano paletti molto forti erano delle ottime ragioni per dire “ok, cosa ci posso costruire intorno?”. È una sfida creativa che aiuta spesso a veicolare e capire in che direzione mandare la cosa che fai in maniera molto focalizzata; e anche in questo caso è stato molto utile, perché appunto ci siamo chiest* subito che cosa possiamo comunicare in maniera molto chiara con delle forme, e in effetti abbiamo capito che per quello di cui parlavamo funzionava molto bene.
Per assurdo forse è stato meglio non avere persone con competenze grafiche, che magari avrebbero poi distratto dalla questione principale che non è qualcosa di facilmente esprimibile in maniera estetica, visuale, perché non si parla di cose facilmente visibili; e invece questa questione di mantenerci sul minimale ha permesso di concentrare molto il significato in pochi simboli.
4. Nel bullet hell si deve schivare
Damiano: Posso chiedervi come avete avuto l’idea del Bullet Hell? Perché calza alla perfezione con la storia che state raccontando.
Mattia: [ride] però in realtà è una buona domanda, perché è stato in quella discussione di due ore di brainstorming-delirio che è molto difficile ricostruire. Prima di tutto è nata l’intuizione della strada. Volevamo parlare appunto di un percorso, di camminare lungo una strada che era poi la vita e ci siamo chiest* a partire da lì cosa poi potevamo aggiungere. Credo che forse una delle prime intuizioni è stata proprio quella del “stai camminando per strada, qualcun* si rivolge a te utilizzando certe parole, in un certo modo e ne vieni ferit*”, quindi quest’immagine di essere ferit* da qualcosa che ti viene addosso proprio come dei proiettili, e allora lì è arrivato il collegamento proiettili-bullet hell.
Tra l’altro nella prima versione esistevano solo i bullet hell tra le fasi di dialogo, poi nella fase successiva dove ci siamo mess* a ragionarci sopra abbiamo detto “sì però, effettivamente, anche nel dialogo ci sono quelle parole, anzi sono proprio lì” e quindi abbiamo integrato la questione dei bullet anche in quella fase. Lì c’è stata anche una conversazione molto bella con Marta Ciaccasassi, che è una game designer principalmente di giochi da tavolo; abbiamo cercato il suo feedback a riguardo, e ce ne ha dati tantissimi utili. Una delle cose che ci ha fatto notare è stato che nella prima versione, durante le conversazioni, i bullet partivano solo quando uno premeva invio, quindi i bullet aspettavano che tu fossi pront*, ed era una cosa che avevamo inserito proprio per user interface; lei invece ha fatto giustamente notare che ciò non corrispondeva per esempio alla sua esperienza come donna, dove quelle parole arrivano addosso inaspettatamente, non è qualcosa che sceglie o che aspettano che lei sia pronta.
Sono qualcosa che ti colpiscono e ti disturbano quando non te lo aspetti.
Damiano: Tra l’altro, piccolo fun fact, Marta - che abbiamo scoperto essere una conoscenza in comune - mi ha portato a riflettere su un concetto semplice, ma al quale non avevo mai pensato. Ovvero che lo scopo nei Bullet Hell non è tanto sparare, quanto schivare. Il tutto mentre stavamo giocando al gioco da tavolo Bullet (un bullet hell) con amic*.
5. Il finale, con spoiler
Ilaria: ci parlate un po’ del finale? Perché oltre a essere stato qualcosa di inaspettato, c’è questa componente dei proiettili che ti rimbalzano addosso che vorrei che me ne parlaste un po’, perché io l’ho interpretato in un modo, ma giustamente non so se l’ho interpretata bene.
Marco: una volta finita la game jam ci siamo mess* un attimo a fare un attimino di design per capire su cosa intervenire, e la prima cosa su cui ci siamo concentrat* è il discorso del tema; volevamo che tutto, dall’inizio alla fine, fosse coerente. Nel far questa cosa la cosa che ci siamo dett* è che la maggior parte delle narrazioni attorno alle persone queer tendono al drammatico: o siamo dei comic relief o dobbiamo morire, e a noi questa cosa stava sulle scatole. A quel punto è stato abbastanza immediato decidere che, a prescindere, ci sarebbe stato un messaggio di positività, di rafforzamento, anche per permetterci di toccare durante la parte di gioco momenti più tragici, sapendo che comunque chi finiva il gioco avrebbe avuto un momento di sollievo.
Quel finale, in qualche modo, è una power fantasy, nel mondo reale non è così: lì l’idea che non sei più sol*, che hai delle persone accanto, che ti somigliano e che finalmente riesci a vedere perché magari c’erano già prima ma, in qualche modo, non avevi gli strumenti per riconoscerle; le persone che hai accanto – come il triangolino – ti aiutano ad affrontare questa cosa. Lì nel gioco ti aiutano ad affrontare tutto, anche se nella realtà purtroppo non è così, ma il senso di comunità che volevamo mettere come centrale aiuta ad affrontare il resto. Molto spesso nei videogiochi tu sei al centro del mondo dall’inizio alla fine: sei la persona che può fare tutto e il mondo non può esistere senza di te; con l’esperienza queer sappiamo che è l’esatto opposto: da sol* è molto difficile riuscire ad affrontare le cose, ed è la comunità – intesa sia come attivist* che come persone care – che ti aiutano ad affrontare tutto. Questa cosa si è unita al fatto di vedersi, nel senso che il tempo per le persone queer – o in generale per chi fa parte di un margine – è diverso dallo standard dell’eroe, perché c’è un momento di negazione che viene da fuori lungo l’infanzia e l’adolescenza in cui ti puoi rivedere, quindi era importante mettere un momento in cui chi giocava poteva riaffermare se stesso per la persona che effettivamente è e dire al mondo “ok, voi mi avete detto che sono questa cosa per un sacco di tempo, ma non è così, io sono altro e ora mi vedo”.
Ammetto che è una cosa stupida, ma quando Mattia mi ha fatto vedere il risultato grafico del finale ho pianto tantissimo, perché è quello che vorrei potesse accadere per me e per tutt*, perché questa cosa ce la subiamo a prescindere che siamo o non siamo cis. Anche tu Ilaria nell’articolo raccontavi quanto ti venisse chiesto di essere una cosa diversa, e vedendo comunque i commenti che sono usciti in questi giorni sul gioco è una cosa che subiamo tutt*.
Ilaria: Quando sono arrivata lì al finale io l’ho trovato bellissimo; è stato un momento di soddisfazione potermi muovere e vedere tutti quei proiettili che rimbalzavano. Ragionandoci su poi, però, mi sono resa conto che è qualcosa di davvero molto utopico, un “come vorrei che effettivamente fosse il finale”, quindi era per questo che volevo sentirvene parlare. Confesso però che non avevo colto al momento il fattore della “comunità”, però c’è effettivamente il triangolino che ti aiuta, intorno a te, più tutte le altre figure. E boh, bellissimo.
Damiano: ci sono molte cose che subito non avevo notato, e all’inizio avevo l'impressione che ci fossero delle sezioni di gioco poco chiare, come il finale. Parlandone con altr* collegh* e leggendo i loro articoli, invece, ho scoperto che forse il problema ero io. Per esempio, parlandone con il buon Lorenzo “Igno” (di Parliamo di Videogiochi e Gameromancer) era uscita fuori proprio la questione della creazione personaggio sul finale, molto interessante. Confesso quindi che alcuni elementi non li ho subito colti, forse devo semplicemente rigiocarlo con più attenzione.
Mattia: Ad aver avuto più tempo e più mezzi, sicuramente c’erano tante cose nel gioco che avremmo voluto migliorare, aggiungere. Abbiamo una to-do-list su Trello che è infinita, ma abbiamo dovuto fare un po’ una selezione. Il finale era un punto secondo me molto complesso da gestire, perché doveva appunto arrivare molto forte e in maniera molto concentrata, in modo che fosse davvero potente. Per raccontare proprio tutto probabilmente si sarebbe dovuto dilungare, e quindi forse avremmo potuto spiegare meglio, però poi l’effetto a livello di esperienza sarebbe stato meno intenso. Quindi si è trattato un po’ di bilanciare le due cose. È vero quindi che magari alcune cose non si colgono subito, come quel “e non sono più sol*” e le figure che ti raccontano questa cosa, perché sono proprio questi due elementi e se sfuggono non c’è modo in seguito per comprendere questo aspetto.
Marco: poi, sia Pallino che Pallina non riescono a venirne fuori da sol* all’interno delle loro narrazioni, perché hanno entramb* qualcun* di supporto, al loro fianco, però effettivamente in una narrazione molto più intimista che collettiva questo aspetto si toglie un po’.
Mattia: però sì, come tutti i giochi ci sarebbero sempre cose che vorremmo migliorare. [ridono]
Ilaria: ma il vostro gioco funziona tanto bene anche perché non dice tutto. Oltre all’utilizzo delle figure, che lascia tantissimo spazio all’immaginazione, anche la narrazione scritta non è didascalica, ma punta a farti percepire. Sei tu giocator* che devi un attimo fare quel passo in più per scoprire ciò che non viene detto.
Mattia: Marco ci ha fatto un sacco di lavoro perché voleva assolutamente evitare di essere didascalico, e su quei testi ci ha lavorato un sacco.
Damiano: ma avete fatto assolutamente bene, infatti mi sono poi reso semplicemente conto che ero io a non aver notato determinati dettagli nel gioco.
Mattia: d'altronde, da quando si progetta il gioco alla persona che poi vive l’esperienza c’è uno spazio talmente enorme che è impossibile che riesci a comunicare sempre tutto perfettamente come volevi. Non si può fare con i giochi e probabilmente con nessun medium; è normale che sia così ed è parte del gioco [ride], nel senso che alla fine è importante che passi la maggior parte del messaggio e del tema. Poi c’era un’altra che osservavamo l’altro giorno io e Marco e che è stata interessante, ovvero che molte persone “nerd” sono state molto colpite, hanno trovato molti collegamenti con la loro esperienza di vita. La cosa all’inizio ci ha molto colpito, perché il nerd medio te lo immagini cis, etero, uomo, quindi perché trova dei punti con l’esperienza di una persona non binaria? E un po’ la spiegazione che ci siamo dat* e che è l’esperienza di chi non si ritrova negli stereotipi di genere che le persone si aspettano da loro, ed effettivamente per molte persone nerd nella loro infanzia loro erano lontane dallo stereotipo di uomo che si aspettavano, avevano un tipo di mascolinità diversa, e come tale che subiva delle oppressioni. Chiaramente non sono paragonabili a quelle di una persona non binaria o trans, però avevano un eco nella loro esperienza.
Marco: c’è una frase di Raewyn Connell, l’autrice di Masculinities, che ci è rimasta fissa in testa, ed è sul fatto che la mascolinità è qualcosa di molto sottile e che non ha una vera e propria definizione, ma sa sempre che cosa non è. Quindi è difficilissimo rimanere all’interno di un riconoscimento sociale maschile, perché basta poco per esserne spalmati fuori, e alla fine i nerd nel bene o nel male non sono mai stati una narrazione positiva, vuoi per il fisico, per la narrazione, per il fatto che “non sei bravo con le donne” e tutte quelle cose lì, e nonostante negli ultimi dieci anni siano cambiate le narrazioni dei media su questo senso non riesce comunque a essere – anche per fortuna, per certi versi – una mascolinità egemone. Quindi probabilmente è anche per quello che si è creato un ponte, in qualche modo. Il modo in cui veniamo schiacciat* è molto simile, poi sono le conseguenze a cambiare, quindi per esempio la reazione fisica o l’esclusione dei gruppi “importanti”, d’élite, che sia nella scuola o al lavoro, sono sempre metodi che si rifanno su tutt* noi.
Mattia: sì poi immagino che le persone che ci hanno giocato abbiano avuto un’infanzia nerd quando ancora non era “cool”.
Ilaria: diciamo che è bastato quel piccolo eco di riconoscibilità per aiutarli a provare ad amplificare e a comprendere il tutto.
Mattia: non era stata pensata, ma ha funzionato!
Ilaria: meraviglia!
Marco: uno dei momenti per me più difficili – poi gli ho scritto anche in privato – è stato il post che ha scritto Scibetta, perché quando abbiamo fatto questo gioco speravamo di far sentire le persone non binarie e trans a loro agio; se le persone cis si sarebbero riconosciute andava bene, ma quello che ha scritto Scibetta sul momento mi ha messo molto sulla difensiva perché era un po’ come se avessi visto il “bullo” che mi ha pres* di mira per tutta la mia storia dire “ok, mi ci sono riconosciuto”. Poi messa da parte questa cosa è stato un momento molto intenso, mettiamola così [ride]. Inaspettato.
Damiano: ci sta assolutamente, il suo articolo prendeva in considerazione la consapevolezza della mascolinità tossica. È interessante anche sapere che il vostro gioco ha fatto prendere coscienza di determinati comportamenti tossici avuti in passato e di un fenomeno, purtroppo, estremamente diffuso. Di base non è facile fare un percorso di riflessione in tal senso.
Marco: secondo me alla fine è importante anche perché il “bulletto” non viene a guardare owof. C’è una certa immagine che stiamo alimentando che non attira il ragazzo medio che ancora non sta mettendo in discussione le cose. Scibetta fa parte di Gameromancer, una realtà con una comunicazione molto da “fratello maggiore”, quindi è il “tipo figo” che ti dice “guarda, questa cosa non è poi così figa”, quindi è molto importante perché arriva a parlare a gente a cui noi non arriviamo per giungere poi a obiettivi simili. È stato bello vederlo.
6. Ink e lo sviluppo di non-binary
Damiano: Ci avete raccontato in privato di avere l’intenzione di condividere il vostro codice sorgente. Ci raccontate un po’ quali strumenti avete usato per sviluppare Non-Binary?
Mattia: allora, gli strumenti che abbiamo utilizzato sono Unity e Ink, principalmente. Unity beh, non ha bisogno di presentazione, è l’ambiente di sviluppo – specie per giochi indie – più diffuso. Questo è stato un po’ il primo progetto serio su cui ho messo mano, quindi ci sono anche tanti esperimenti dentro questo gioco. Ink invece è un programma di cui vi parlerà meglio Marco, però è quello che si occupa di tutto il motore narrativo: scelte, conseguenze, gestione dei testi. E sì, noi vogliamo rendere pubblica la sorgente, che anzi è già tutto pronto, devo solo premere un click!
Il fatto di aver lavorato su due programmi diversi ci ha aiutat*, perché in questo modo l*i poteva scrivere i testi su Ink, e io potevo integrare poi il lato Ink e gestire tutta la parte grafica per mostrare il testo e gestire le reazioni, quindi è un modello di sviluppo in cui ci siamo molto trovat*. Tra l’altro, abbiamo trovato un sistema di sviluppo che poi alla GDC di quest’anno sono arrivati gli sviluppatori di Yarn Spinner, che ha un sistema analogo a Ink – è quello che sta dietro a Night in the Woods per dire –, e proponevano dei sistemi che erano quelli che stavamo sperimentando noi, quindi abbiamo detto “eh dai, abbiamo avuto una buona idea alla fine!”.
Marco: Ink è il codice di Inkle – quelli di Heaven’s Vault, Overboard! e così via – che hanno messo a disposizione gratuitamente fin da subito, da quando lo hanno creato. È molto comodo per chi scrive perché ha più livelli di profondità, e già quello più semplice e più accessibile è pensato per scrivere mentre fai parte della programmazione, quindi con scelte, conseguenze e così via. Poi è molto interessante perché, anche se in non-binary non è sfruttato al massimo ma nei progetti che abbiamo in mente lo faremo meglio, Ink ragiona molto per isole.
Ci sono delle isole di eventi, di testo, per fare in modo che da qualunque parte del gioco si arrivi sia possibile approdare su un’altra isola, quindi ti dà un sacco di mobilità che, per esempio, Twine non ha, perché il senso di ramificazione in Twine è comodo graficamente ma poi è molto vincolante. Anche poi per il fatto che ha un linguaggio molto accessibile – le guide sono abbastanza chiare, almeno per la parte più superficiale – ci ha permesso durante la Global game jam di far sì che io potessi gestire la parte di variabili all’interno del gioco senza caricarle su Mattia che stava già smattando per altro. Quindi in questo modo permette a chi scrive di avere un’idea più chiara di cosa sta succedendo durante le programmazioni, di creare una sorta di linguaggio comune, e di suddividere un po’ le responsabilità. Chi programma lavora comunque sulle cose complesse, ma almeno la parte più superficiale, più testuale è gestibile, e si integra bene.
Mattia: sì, ha tutta una serie di tool per integrarlo in vari ambienti, tra cui Unity. Un altro vantaggio di cui, se non ricordo male, mi avevi parlato tu Marco, è che, a differenza di Twine, Ink si adatta di più anche all’abitudine di chi scrive, nel senso che chi scrive solitamente vuole un foglio, e Ink cerca di avvicinarsi il più possibile di avvicinarsi graficamente allo scrivere per esempio una sceneggiatura. È un modo molto comodo per portare chi scrive racconti o sceneggiature all’interno del mondo della programmazione con un work flow molto più integrato, senza far dei gran giri o complicare le cose.
Marco: sì, per esempio io ero al parchetto a scrivere con il quaderno e ogni tanto mi mettevo i simbolini accanto di quello che dovevo solo trascrivere su Ink, e il lavoro era già fatto.
7. Open-source
Damiano: Ritornando un attimo alla vostra intenzione di condividere il codice, vi chiedo, come vi ponete rispetto al mondo open-source? Lo chiedo anche da persona affascinata dal concetto dell’open-source.
Mattia: Qui provo a rispondere io che ho un’opinione abbastanza forte sul tema. Allora, per quel che riguarda la questione open source sicuramente ritengo sia estremamente importante e, fosse per me, certe cose andrebbero fatte per legge in open source, anche per quello vogliamo condividere il codice. Come progetto owof, in particolare, ci teniamo molto alla questione della condivisione, e anche per quello abbiamo scritto vari design diaries, non tanto per dire quanto siamo figh*, ma per dire “guardate, questi sono i percorsi e i ragionamenti che abbiamo fatto, e anche gli errori che abbiamo fatto”, per aiutare altre persone a entrare in questo mondo.
Il discorso open source è una cosa analoga: non so come si fa una cosa, vedo che l’ha fatta un progetto e se ho delle conoscenze di base posso andare lì a controllare come è stata fatta e magari imparo qualcosa. Quindi è sempre un discorso di scambi di conoscenze ma anche di crescita e condivisione. Poi per me c’è anche il lato oscuro dell’open source, nel senso che alla fine è un ambiente molto “bro”, con spesso molte poche considerazioni a livello sociale e politico. Cioè, si vede dentro l’open source la soluzione a tutti i mali del mondo, non si mettono in discussione certe situazioni e poi si finisce con storie come quella di Richard Stallman di recente.
Quindi ci sono magari situazioni molto brutte in questi ambienti, molto maschili, non politicizzati e che, come sempre quando un ambiente si dichiara non politicizzato, finisce sull’estrema destra. È una base estremamente importante, ma è un discorso che va fatto crescere e reso più consapevole e cosciente di certi problemi che si porta sempre dietro.
8. Da Itch.io a Steam
Ilaria: c’è poi l’ultimissima domanda, di pura curiosità. Come mai la piattaforma Itch.io? Perché noi percepiamo Itch.io come quel luogo per giochi indie, ma che di per sé è molto indie. Nel senso che, boh, è difficile che la maggior parte di chi gioca sappia dell’esistenza di Itch.io.
Marco: allora, vorrei dire che abbiamo fatto grandi ragionamenti [ride], ma da una parte, fra tutte le varie piattaforme che girano, è quella che è meno pessima dal punto di vista etico, per ora. È caotica, disordinata, ma anche per questo è uno spazio in cui si possono trovare cose molto interessanti. Molte delle autorialità queer che ho scoperto vengono da lì. E forse anche per una questione di urgenza non abbiamo pensato ad altri spazi. Adesso abbiamo fatto la richiesta di caricare il gioco su Steam, anche dopo una chiacchierata che abbiamo fatto con Damiano, perché proprio non ci avevamo pensato.
Mattia: c’è stato anche il fatto che noi non ci aspettavamo questo risultato con il gioco. Il nostro obiettivo era quello di fare un gioco con un tema molto specifico, e ci rendevamo conto che era davvero un tempo tanto specifico e che avrebbe interessato pochissime persone. A quanto pare siamo riuscit* a comunicare a molte più persone di quante pensassimo, e i canali di comunicazione, sia store che social, abbiamo realizzato essere molto più importanti di quello che credevamo, perché c’era una potenzialità in questo gioco che non avevamo colto. Ma, appunto, è stato tutto un processo in corsa. Per il genere di gioco che è non-binary a me verrebbe quasi da dire che è il suo ambiente naturale Itch.io; è un ambiente in cui si fa molta sperimentazione e dove non ci sono certe forme di censura molto fastidiose che ci sono invece su altri store. Il nostro è un gioco molto tenue sotto quell’aspetto – non ci sono scene di sesso o altro – ma comunque tratta tematiche sensibili, e su Itch.io ci mettiamo in contatto con altr* creators che hanno scelto quello come canale perché permette di parlare di certe cose.
Marco: tra l’altro, una cosa che abbiamo realizzato quando abbiamo deciso di fare la cosa su Steam è che sono due i tipi di scenari che ci si pongono davanti: uno è quello di non essere visibili perché, al di là dello spamming che faremo noi, Steam non ha motivi di promuoverci perché è un gioco gratuito e piccolo; l’altra è una cosa che su Itch.io non è successa, ed è quella di avere commenti fortemente negativi. Per quanto su Itch.io si possano trovare giochi cringissimi è uno spazio molto tranquillo. Steam è uno spazio che somiglia di più a Facebook, dove la gente ha bisogno di caricare frustrazioni su progetti altri, e ognuno di quei messaggi ha un peso emotivo.
Damiano: Se dovessero arrivare quei messaggi lì mi sentirei davvero in colpa.
[ridiamo tutt*]
Mattia: no, la decisione è nostra comunque, quindi vai tranquillo!
Damiano: l’ambiente di itch.io, sotto questo punto di vista, è sicuramente più inclusivo.
Mattia: su Itch.io c’è stata anche l’esperienza molto positiva del Queer Games Bundle, che effettivamente con quello riusciremo a dare abbastanza soldini al MIT, perché siamo probabilmente intorno ai 200.
Marco: sì, tolte le quote a 200 ci arriviamo.
Mattia: quindi c’è questa struttura di bundle che spesso sono indirizzate a uno scopo etico, un circolo virtuoso che su Steam magari non vedi, perché il bundle lo prendi perché ti piacciono i giochi, non perché vuoi supportare l* creator queer o perché vuoi supportare il BLM.
Marco: anche per fare un esempio brutto ma terra-terra, l’altro giorno stavo guardando cosa era finito sotto l’etichetta LGBT e ci sono moltissimi giochi di simulazione sessuale dove LGBT è la persona trans sessualizzata per l’occhio del maschio cis etero. In un bundle come quello di Itch.io invece sono bene o male tutt* creator queer, quindi magari c’è anche il gioco che parla di sesso, però dalla prospettiva di chi lo vive per parlare della sua esperienza.
Ringraziamo l* ragazz* di owof games per averci concesso questa incredibile intervista. Ricordiamo che il loro gioco, non-binary, è disponibile gratuitamente sulla piattaforma Itch.io e, da oggi 19 luglio, anche su Steam.
Auguriamo loro il meglio per il futuro e invitiamo tutt* voi a seguire i loro social ufficiali (Twitter, Instagram e sito web). Se foste interessat* a sviluppare un gioco anche voi, ricordate che hanno pubblicato il loro codice sorgente e potete contattarl* per qualcunque chiarimento.
Noi ci rivediamo alla prossima puntata di Still Alive! Nell’ultima puntata abbiamo parlato di cambiamenti climatici ed ecologia nei videogiochi. Se non avete ancora letto non vi preoccupate, potete sempre recuperare qui Still Alive, Antropocene.
Vi lovviamo tanto tanto <3