“La traduzione videoludica è un lavoro creativo”
Intervista a Beatrice Ceruti, traduttrice di NEO: The World Ends With You e Ghostwire Tokyo.
Per continuare con il tema della scorsa puntata di Still Alive, quest’oggi vi proponiamo un’altra cosa di cui nessuno parla (o di cui spesso ci si scorda). Localizzare i videogiochi, tradurli e adattarli è un aspetto che spesso diamo per scontato, ma che rappresenta un lavoro creativo utilissimo per permettere a un titolo di raggiungere tutta quella fetta di popolazione che, altrimenti, ne rimarrebbe priva.
Abbiamo avuto modo di parlare con Beatrice Ceruti, traduttrice e localizzatrice di videogiochi, che ci ha raccontato un po’ il suo percorso di studi, la sua passione e il suo lavoro. Quest’ultimo viene raccontato con un punto di vista che noi, in primis, non conoscevamo, con tutte le problematiche della condizione di lavoro, delle possibilità di carriera, dell’invisibilizzazione e dell’alienazione.
Vista la lunghezza dell’intervista, qui di seguito potete trovare un indice con le domande e gli argomenti trattati. Ringraziamo di cuore Beatrice per il tempo che ci ha concesso e speriamo che la sua voce sia ascoltata con interesse e attenzione.
Indice
Parlaci di te e del tuo lavoro
Come ti sei approcciata al videogioco?
Diritti dei traduttori? Ci puoi fare una panoramica?
Nickname e alienazione
Linguaggio inclusivo, come fate?
Ghostwire Tokyo, leggende urbane e formazione pagata?
I giochi che detesti tradurre
Strumenti per lavorare
1. Ilaria: Parlaci di te e del tuo lavoro
Beatrice: Mi chiamo Beatrice Ceruti, ho 30 anni. Traduco videogiochi per vivere, o almeno, soprattutto videogiochi. Diciamo che, come traduttrice, all’inizio ho fatto anche contenuti più generalisti. Quel che traduco di più sono proprio i videogiochi; infatti, me ne occupo tutti i giorni. Ultimamente sono riuscita anche a stringere un accordo con una casa di pubblicazione italiana, Raven Distribution, quindi sto facendo anche qualche gioco da tavolo. Dovrei iniziare anche qualche progetto editoriale e sono molto felice perché sono dal tedesco, mentre i videogiochi si traducono spesso dall’inglese o altre lingue orientali, che io attualmente non conosco per cui “mi arrangio” e vado dall’inglese.
Le mie lingue di lavoro sono l’inglese e il tedesco, e traduco verso l’italiano. Ho tradotto anche un webcomic e mi piacerebbe lavorare di più nell’ambito letterario, ma è ancora più faticoso entrarci e meno remunerativo dei videogiochi. Per cui c’è come primo obiettivo la pagnotta, e poi facciamo il resto (ride).
È un lavoro molto bello, soddisfacente ed estremamente vario proprio perché i contenuti sono vari. Un po’ complicato da tanti punti di vista. Nel senso, per i diritti dell* traduttor* ci sono tante parentesi mai chiuse, che si spera prima o poi si chiuderanno e spesso c’entrano anche col rapporto con le agenzie.
A me, comunque, piace molto la localizzazione: ho avuto un insieme di occasioni che mi sono creata, ma anche la possibilità di intraprendere questa strada da libera professionista. Sono molto felice di fare questo lavoro!
2. Ilaria: come ti sei approcciata al videogioco? Eri già appassionata di videogiochi e ti sei quindi avvicinata per passione oppure ci sei capitata?
Beatrice: Più o meno. Io non sono mai stata una videogiocatrice di quelle che esce un titolo, lo compra e lo gioca. Da persona nata nel ’92 sono cresciuta con PlayStation 1, i GameBoy e Pokémon, Crash Bandicoot. Di tutto ciò che poteva essere di quel periodo me ne sono nutrita. Poi sono arrivata al liceo che ancora giocavo un po’; il punto di passaggio in cui ho smesso di giocare è stata l’università. I motivi sono diversi: il primo è che ho sempre giocato su console, e su PC non mi ci sono mai trovata; inoltre c’è stato quel periodo in cui non avevo console a casa e nemmeno molto interesse a comprarne una. Poi c’è stata una questione di priorità: in triennale ho fatto Lingue e Letterature Straniere e leggere è diventato molto più importante in quel momento rispetto al giocare ai videogiochi.
Anche perché conoscere la lingua italiana è fondamentale per tradurre bene, se uno non sa parlare correttamente è un problema e la conoscenza maggiore si ritrova nei classici italiani della letteratura ed è lì che bisogna attingere.
Diciamo che ho sempre mantenuto la passione. Se sapevo che mi piaceva un gioco ma non potevo giocarci mi guardavo i gameplay, come una piccola fan. Sono molto orgogliosa di aver visto i gameplay di The Last of Us con uno youtuber, anche perché ho il terrore degli horror. Non riesco a giocare a nulla che sia horror, quindi io mi spavento e la situazione era che lo guardavo così (si copre gli occhi).
Damiano: Perfettamente comprensibile la questione degli horror (risata)
Ilaria: ho avuto la stessa identica esperienza con l’università, essendo fuori sede. In tutte le case in cui ho abitato non c’è mai stata la televisione. Solo l’idea di portare la console era impensabile. L’unico computer a mia disposizione è sempre stato il piccolo portatile su cui faccio tutto, e vivo nella costante paura nell’installare qualunque cosa, perché se esplode, esplode tutto il lavoro che c’è dentro. Anche io ho fatto un bel periodo in cui se non potevo giocare guardavo gameplay. Era diventato il mio unico modo per fruire un videogioco.
Beatrice: Sì, esatto. Alla fine, poi, ribadisco, con gli horror non ce la posso fare, ho proprio paura. Mi rendo conto che The Last of Us è bellissimo, ma io gli zombie non li sopporto, ho il terrore. Questo è tutto zombie, ogni tre secondi sei lì che devi andare furtivo e io di furtività ho -1000. Quindi me lo sono guardata così.
Poi, cosa è successo, sono arrivata alla fine della triennale che non sapevo cosa fare della mia vita. Ho avuto questo grandissimo colpo di fortuna perché un’amica si era iscritta a questa scuola di traduzione a Milano, la Civica Scuola Interpreti e Traduttori Altiero Spinelli. Me ne parlava bene, ho fatto il test e di gran culo sono passata, anche perché le classi sono piccoline. Ho fatto due anni di traduzione: il primo anno è stato molto generalista e si prova un po’ di tutto, ma al secondo ho scelto il percorso letterario. Una volta laureata sono andata a fare un mese ad Amburgo, giusto perché il tedesco oltre che studiarlo è sempre meglio metterlo in pratica, nel dubbio. Stavo guardando le opportunità di stage e ho trovato quest’agenzia che si chiama Altagram – per cui tuttora lavoro – che si trova a Berlino. Io ero già stata a Berlino e me ne ero innamorata, così ho mandato un’application. Ho passato il test e mi hanno preso per lo stage: sono stata sei mesi in questo ufficetto molto carino che sembra davvero uscito da un videogioco, molto tenero.
Ho fatto questo stage e avevo già aperto una partita IVA per tutto un insieme di gabole per far risparmiare i soldi. Quando ho finito il tirocinio, mi hanno proposto di continuare come libera professionista, ma nel mentre sono tornata a casa a vivere dai miei genitori ancora un anno e mezzo; quindi, avevo il tempo di provare questa formula. Da lì in poi ho continuato a mandare curriculum su curriculum e fare test di traduzione, e sono qua!
È stata un po’ lunga, mi spiace (ride).
Damiano: Non ti preoccupare, è stato il tuo viaggio e la tua esperienza!
Beatrice: Tutto questo per dire che l’interesse per i videogiochi ha “giocato” un ruolo. Se non mi fossero piaciuti i videogiochi probabilmente non avrei mandato il curriculum lì. Adesso ho ripreso a giocare, però!
3. Damiano: Prima hai accennato riguardo ai diritti dei traduttori, ci puoi fare una panoramica sulla questione?
Beatrice: Quello dei diritti dell* lavorator* è un grosso tema che sta venendo affrontato sempre più dalle nuove generazioni sulle spalle di quello che hanno fatto alcun* vecchi* traduttor*, e ci si aiuta a vicenda, diciamo così. Adesso ha cominciato a fare tendenza su Twitter l’hashtag #TranslatorsInTheCredits, che riguarda il fatto di mettere le persone che si sono occupate della traduzione all’interno dei titoli di coda. Questo è uno dei fulcri più importanti, faccio una piccola digressione.
Le traduzioni possono essere affidate in-house, cioè all’interno del team di traduzione del cliente: tipo, Nintendo gestisce quasi tutto internamente quando si tratta di giochi, poi le comunicazioni esterne ogni tanto le danno a terzi. Tutto ciò che ruota intorno ai videogiochi è tradotto; quindi, anche la pagina dello store e le descrizioni sono tradotte. A me a volte capita di non tradurre giochi, ma di fare tutti i contenuti di marketing o i blog post degli sviluppatori. Ad esempio, per Fortnite so per certo che c’è gente che traduce ogni giorno perché pubblicano così tanti contenuti sul loro sito che c’è bisogno di ricambio continuo. Quindi ogni tanto c’è gente che non conosce minimamente il gioco, ma traduce i contenuti a parte.
Cosa succede? Quando l* traduttor* sono intern* spesso vengono menzionat* all’interno dell’opera. Quindi alla fine dei titoli di coda, quando ci sono tutti i dipartimenti, c’è di solito anche la localizzazione. Il problema è che quando questi giochi vengono subappaltati ad altre aziende, queste hanno la tendenza a non inserire i nomi di chi ha tradotto. Viene, per l’appunto, inserita l’agenzia e basta. C’è un problema a livello di riconoscimento del lavoro. Per fare un esempio pratico, Square Enix non ha un dipartimento interno di localizzazione e si affida a delle agenzie specializzate. Le agenzie è raro che abbiano grandi uffici interni con un tot di linguisti che possano gestire tutti i giochi che arrivano, anche perché sono molto grossi! Per Ghostwire Tokyo, gioco di cui posso parlare liberamente, eravamo sei traduttor* e due revisori, più alcune persone che hanno lavorato al backup e con cui però ho comunicato di meno. Ci abbiamo messo, lavorando l’equivalente di un part-time o più o meno a seconda della propria capacità di lavoro, circa quattro/cinque mesi. Quindi sono moli di parole importanti.
Quindi facciamo un altro esempio: se tu fai parte di un’agenzia e magari sei revisore interno di Altagram, e in quegli anni in cui hai lavorato l’agenzia ha pubblicato determinati giochi, c’è grande probabilità che tu ti sia occupat* della loro localizzazione. Però non è detto che possano essere divulgati, soprattutto se non sei nei titoli di coda. Se lavori cinque/sei anni in Altagram e poi te ne vai, potresti essere comunque legat* agli NDA che hai firmato, e quindi non puoi comunque scrivere sul suo curriculum i titoli esatti. Puoi scrivere solo che hai lavorato ad Altagram in quegli anni e l’azienda ti può dare una lettera di referenze in cui dice che hai lavorato a “tot” titoli. Io ne ho richiesta una da parte loro in cui ci sono scritte quante parole ho tradotto per loro in questi anni e i titoli senza citarli direttamente: ad esempio “RPG molto famoso” o “FPS qualcosa” e fine. Cito Altagram perché è una realtà che conosco, ma la situazione nella media è così per tutti.
Il problema di base è che la maggior parte delle agenzie tende a evitare di mettere i nomi dell* traduttor* nei titoli di coda, a priori. Essere nei crediti è utile perché, prima di tutto, ci lavoro io e questo prodotto non lo avreste senza di me. Tutti i guadagni che vengono fatti sul mercato sono direttamente legati alla qualità del mio lavoro. Seconda cosa, per quanto difficile da inquadrare, la traduzione videoludica è un lavoro creativo. Qualsiasi dialogo, descrizione, armi o abilità che sia un po’ più creativa, ci metti del tuo. È più assimilabile a una traduzione come il sottotitolaggio e doppiaggio: c’è uno sforzo personale non indifferente. Non è come tradurre un contratto, in cui lo sforzo creativo è minimo. In realtà, sei quasi un autore, come nelle traduzioni letterarie; chi ha tradotto il libro è un autore nella lingua di arrivo. Le agenzie hanno questa tendenza a non mostrare i nomi dell* traduttor*. Quando le contatti ti fanno firmare questi NDA estremamente stringenti, e ciò permette loro di avere più controllo sulle persone.
Se io vado da un’agenzia e dico “vorrei lavorare anche con voi”, ed esordisco affermando che ho tradotto “titolo X” è un conto, altro è dire che ho tradotto “gioco bello di ruolo uscito nell’anno X”. Questo significa tutto e nulla.
Hai meno possibilità di negoziare e di farti notare dagli altri, nonché meno possibilità di fare carriera. Molte tendono anche a non farti comunicare con le persone con cui lavori: hai soprannomi e non sai con chi ti stai relazionando. Non sai né il nome né il cognome, quindi non puoi cercare colleghi e colleghe. Certe volte comunicare con l* altr* significa non sapere con chi stai parlando, e spesso io faccio ricerche su LinkedIn per vie traverse per cercare di capire con chi sto lavorando. Tutto questo mette in difficoltà noi: l’agenzia ha sempre più controllo su quello che possiamo dettare come accordi e rimaniamo indeboliti perché ci sono meno dinamiche relazionali, discutiamo meno e ci troviamo meno. Abbiamo anche meno potere contrattuale, perché se non riesco a citare apertamente i titoli a cui ho lavorato sembra che non abbia fatto niente: cinque anni con un titolo sono diversi da cinque anni con quattro/cinque titoli importanti. Al contempo, essendo un mercato libero – purtroppo – chi più ne ha più ne metta. Ultimamente c’è una tendenza al ribasso estremamente preoccupante, ho collegh* che lavorano da 15 anni nell’ambito e si sono ritrovat* ad abbassare le tariffe, quando la tendenza dovrebbe essere diversa.
Per la questione diritti, oltre ai problemi con le agenzie, ci sono anche da tenere in considerazione il fatto che spesso i clienti hanno approcci abbastanza casuali per aggiungere l* traduttor* nei credits: in alcuni progetti richiedono i nomi e li aggiungono, ma ogni tanto capita che non lo facciano per altri, per i più svariati motivi. Certe volte ci sono anche casi in cui il cliente si appoggia a un’agenzia che non ha tutte le risorse linguistiche disponibili, quindi subappalta a terzi per le lingue che non sono nel suo pool e magari queste terze persone non vogliono aggiungere le persone ai credits. Quindi, i clienti magari ci han provato, ma poi alcuni team di traduzione vengono a mancare per altri motivi.
Inoltre, spesso l* sviluppator* stess* non si rendono conto di quanto chi localizzi sia “partecipe” alla creazione di una nuova versione del loro gioco e quindi non richiedono i nomi o non si pongono minimamente il problema. Purtroppo, la localizzazione è ciò che avvicina un pubblico a certi titoli, ma non essendo parte integrante del processo, ma uno step che avviene spesso dopo o in separata sede (tramite agenzia e non internamento al team di sviluppo), è un po’ l’ultima ruota del carro.
Insomma, il riconoscimento sicuramente può essere spinto dal basso, ma ci vorrebbe più impegno anche da parte di altri attori della scena.
4. Ilaria: Questa situazione dei nickname e quindi di non conoscervi, è una condizione in cui ti inserisce l’azienda?
Beatrice: Dipende, ci sono agenzie alle quali ho chiesto chi fosse la mia revisora o revisore e mi hanno dato nome, cognome e contatto Skype per parlare. Noi lavoriamo con un programma che accede ai server del cliente e per entrare servono credenziali. Queste possono essere nome e cognome, “traduttore italiano AB” oppure con il nome dell’agenzia/gruppo di traduttori.
Però molto spesso ci sono queste situazioni di censura dei nomi e questo va a discapito del processo creativo. Nelle dinamiche economiche, ai piani alti non si capiscono queste cose. In alcuni casi c’è così tanta paura che si faccia gruppo e si chiedano condizioni di lavoro migliori che si manca proprio il punto del lavoro che è quello di creare una buona traduzione.
5. Ilaria: Riguardo il linguaggio inclusivo come fate? Vi vengono date delle linee guida nel caso in cui l* sviluppator* abbiano questo desiderio, oppure in generale cercate di essere più inclusiv* possibile, magari usando anche delle alternative, come per esempio al posto di “l'uomo” dite “l'essere umano”.
Beatrice: Siamo ancora a un livello di sensibilità personale, e dipende anche dalle limitazioni date dai giochi. Ogni tanto arriva la richiesta del cliente, che vuole parlare a persone di ogni genere, ma molte volte la possibilità di riuscire ad applicarlo dipende da questioni tecniche. Quando si traduce per i videogiochi, oltre al fatto che c’è tutto l’apparato della difficoltà nel riportare un concetto nella lingua italiana, c’è poi anche una parte tecnica di limiti di caratteri; io, per esempio, cerco in tutti i modi di trovare aggettivi che finiscono in -e, perché neutri, ma magari ho spazio per soli quattro caratteri e non trovo nulla. Quindi, ecco, ci sono casi in cui la lingua italiana non ti sorregge. Io nelle mie comunicazioni lo schwa lo uso, ma è un atto politico, e usare questo carattere anche nella traduzione non sempre è possibile e in realtà non spetta nemmeno al traduttore in alcuni casi. Se, per esempio, vedo che c’è un personaggio che in inglese usa il they/them, allora posso proporre al cliente tutta una serie di opzioni, tra cui asterisco e schwa.
Per me è una questione estremamente importante quella del linguaggio neutro, quindi studio, leggo, mi informo, ma nel momento della traduzione c’è sempre la necessità di giocare con le varianti per evitare di rendere il testo di difficile lettura. Quindi provo sempre a trovare alternative – come appunto aggettivi che terminano in -e o espressioni più neutrali – e quando proprio non è possibile propongo lo schwa, così da avere nel testo un equilibrio.
Damiano: Io stavo seguendo una discussione simile su un gruppo di game design, ed effettivamente per le persone con dislessia è più comodo l’asterisco. È uno dei motivi per cui noi lo usiamo in Still Alive.
Beatrice: Per farvi capire come è ancora attivo il dibattito, io sto lavorando a un titolo attualmente. E cosa è successo? Che un personaggio citato già altrove in realtà non aveva un genere nell'inglese, e nell'italiano è stato tradotto al femminile. Adesso stiamo mettendo mano al titolo perché è stato richiesto un processo di ammodernamento, di rielaborazione e ci siamo trovat* davanti a questa cosa.
Quindi ci sono giocatori e giocatrici che sono cresciuti e cresciute con un personaggio che è “donna”, ma che in realtà non lo è. E la situazione è stata che ovviamente nel team – siamo in quattro/cinque – ci siamo detti e dette che visto che questo personaggio è stato creato senza un genere, noi lo manteniamo senza genere, punto. È stato bello perché si sono visti i diversi approcci delle varie lingue.
Mettere lo schwa era un’opzione, ma sarebbe stata pesante e probabilmente avremmo avuto tutta una marea di critiche per il contesto del gioco. Quindi praticamente tutti i testi sono stati rielaborati in modo tale da usare aggettivi che finiscono per -e o in modo da non fare riferimenti né femminili né maschili quando si parla di questo personaggio. E quindi se tutto andrà bene non avremo mai personaggi che si rivolgeranno a questo personaggio al maschile o al femminile, e il tutto in maniera molto naturale. Però, per esempio, so che team di altre lingue hanno deciso di usare l'equivalente dello schwa; hanno deciso di proporre questa soluzione, lo hanno chiesto al cliente e via. Non è un approccio migliore o peggiore, perché il risultato è comunque lo stesso, ovvero essere fedeli al personaggio.
Ogni tanto, ci vuole anche una preparazione da parte dell* sviluppator*, perché spesso già sviluppano i giochi solo per l'inglese, quindi non prendono in considerazione le declinazioni italiane, francesi, spagnole, tedesche, etc…
Per loro questa cosa che gli oggetti hanno un genere è sconosciuta, quindi potete immaginare i drammi. L* sviluppator* spesso non hanno idea di cosa significhi localizzare un gioco, ed è invece importante.
Lottiamo per una lingua neutra quando non ce l'abbiamo, quindi è più uno sforzo personale. Poi ci sono i clienti che vogliono magari un approccio neutro per diversi motivi, quindi sono apert* a soluzioni più avanguardiste. Adesso iniziano ad esserci sensibilità simili, mentre, per esempio, quattro anni fa non gliene fregava niente a nessuno.
6. Damiano: ti volevo chiedere, perché me l'avevi accennato precedentemente, mentre stavi localizzando Ghostwire Tokyo, mi hai detto che ti hanno pagato la formazione che hai fatto per capire tutti i riferimenti alle urban legends, e che sono stati effettivamente inclusi nell'orario di lavoro e pagati. Questa cosa è la normalità o no?
Beatrice: no, non è la normalità. Vi posso parlare della mia esperienza, quindi magari c'è gente più fortunata di me.
Tendenzialmente parlando, quella che è definita “familiarizzazione” è fatta solo per progetti molto grossi. Oddio, sono sia progetti grossi, sia progetti su cui si sta puntando molto per caratterizzazione.
Per farvi capire come funziona, io lavoro a casa e tendenzialmente mi arriva una mail da un'agenzia che mi propone diverse possibilità. Solitamente sono di due tipi: o è un gioco che non è particolarmente grosso – con, comunque, un suo minimo di ambientazione – in cui si accettano un tot di parole da tradurre, oppure viene proposto un progetto, in cui si dà la propria disponibilità per un tot di mesi. Per esempio, a me è capitato così per NEO: The World Ends with You. Il team è stato creato molto piccolo, addirittura ricordo che per NEO c’era stata un’aggiuntiva selezione dell* traduttor* dell’agenzia da parte del cliente, quindi è stata curata molto la scelta di chi doveva occuparsi della localizzazione.
Tu quindi dai la disponibilità per un tot di mesi – ci si dà un tot di parole da coprire minimo la settimana per stare nei tempi e nella scaletta di lavoro. Di solito insieme alla mail ci sono il materiale di riferimento, ma non è che ti dicono “ti pago tot ore per guardarli”, perché tu vieni pagat* sulle parole.
Magari sono 300 pdf, 4000 immagini, tutte cose che ti aiutano nell'atto della traduzione però è dato per scontato che tu te le guardi mentre traduci. È un lavoro di ricerca che può essere visto complementare al lavoro di traduzione, ma spesso il materiale è tantissimo e richiede una quantità significativa di ore aggiuntive che non vengono considerate.
Per i lavori di familiarizzazione come con Ghostwire Tokyo e NEO è stato bello, perché ci erano state date un tot di ore pagate. In quel caso ci avevano dato dei video con gli attori che stavano recitando - le stesse scene da cui poi hanno estrapolato i movimenti per il gioco. C’era anche un po’ di gameplay e delle immagini dei personaggi, video, immagini, trailer di riferimento, cutscene, i menu, e altro.
Tra le altre cose che di solito dobbiamo studiare poi ci sono le guide di stile del cliente, come per esempio il modo di scrivere “beh”, e cose così.
Ma è sempre qualcosa di raro, perché in quattro anni situazioni così mi sono capitate solo con quattro giochi.
7. Ilaria: I giochi che detesti tradurre?
Beatrice: Allora, sarò sincera. Grazie a Dio non ho mai tradotto roba di calcio, basket, che proprio non sopporto. Poi ok, l’interfaccia utente. Perché è tutta roba estremamente tecnica e spesso non c’è nemmeno un contesto quando ci vengono date da tradurre. C’è solo una lunga lista di parole.
Poi, in generale, i giochi che mi piace tradurre, ma non troppo, sono appunto i giochi horror. Mi danno da guardare i riferimenti, e io mi cago in mano. Però il problema è che molti giochi horror sono bellissimi e hanno delle trame stupefacenti. E quindi sono lì e mi chiedo: “come faccio mo’ che non dormo la notte, però è bello?!”.
8. Damiano: Che cosa usi per lavorare, avete strumenti particolari?
Beatrice: Ci sono due possibilità: i contenuti legati a giochi estremamente piccoli ogni tanto vengono fatti su Excel, ma è molto brutto. Lo dico e non lo nego. Però, ad esempio, mi capita ogni tanto di fare descrizioni per gli store per agenzie o clienti più piccoli. Quelli arrivano anche su Excel, succede.
Noi usiamo un programma che si chiama MemoQ, di cui la licenza viene data dall’agenzia perché costa tanto. MemoQ senza sconti costa circa 600 euro, solo la licenza personale. Su questo programma vengono caricati i file dati dagli sviluppatori, che possono essere file di qualunque tipologia: file SRT, PDF (ovvero la progenie del male, terribile tradurre PDF) o file Word ed Excel.
Si accede al server del cliente e al progetto, e c’è un’interfaccia con a sinistra il testo diviso per segmenti (spezzato solitamente dalla punteggiatura, al punto fermo) mentre a destra ci sono i corrispettivi segmenti vuoti. L* traduttor* si mette a scrivere nei segmenti vuoti. Questi vanno poi tutti nella memoria di traduzione che è questo mega database in cui ci sono tutte le traduzioni fatte, a cui si può attingere per avere coerenza testuale. Si lavora molto facendo attenzione alla memoria di traduzione e al glossario, che devono essere rispettati per avere coerenza testuale.
Un esempio di questo tipo che, si può non essere d’accordo, è capitato in NEO: The World Ends With You perché nel primo titolo gli Shikigami sono stati tradotti come “Demoni”. Piace? Non piace? Però che faccio, c’è un gioco intero in cui li chiamano demoni, non posso arrivare io a chiamarli “Shikigami” e “Mietitori”. Quindi è stata mantenuta perché nella memoria di traduzione e nel glossario c’era quello. Poi che questa cosa non sia stata mantenuta in tutto il franchise crea un problema di coerenza e lavorazione su tanti fronti. Perché nell’ultimo Kingdom Hearts, quando c’è stata una citazione a NEO, se non erro hanno usato “mietitori”.
Ringraziamo Beatrice Ceruti per il suo racconto e per aver condiviso la sua esperienza e condizione lavorativa con noi. Le auguriamo il meglio per il suo futuro personale e lavorativo. Potete inoltre seguirla su Twitter e su LinkedIn.
Noi ci rivediamo nella prossima puntata ordinaria di Still Alive, ma anche alla prossima intervista. Insomma, ci rivediamo spesso neh?